Negli ultimi 50 anni la disponibilità globale di alimenti nel mondo è aumentata moltissimo, insieme però al cibo insalubre: troppe calorie, troppi trasformati, troppi cibi di origine animale. In parallelo, la ricerca di una dieta universale, capace di nutrire tutti, sana, amica del pianeta, e non violenta rispetto agli altri esseri, è rimasta a lungo una passione di nicchia.

Un sistema agroalimentare salutare e sostenibile di questo tipo è da tempo oggetto di attenzione. Libri, come Diet for a small planet del 1971 o Giusta alimentazione e lotta contro la fame del 1977; campagne internazionali, come la Global Hunger Alliance; tentativi di cooperazione Nord-Sud come Veg-Fam o The Farm; progetti di ricerca applicata come Profetas (Protein, Foods, Environment, Technology and Society) elaborato dalle università olandesi; impegno degli ambientalisti come dell’internazionale contadina La Via campesina o dell’organizzazione Slow Food con il suo slogan sul cibo «buono, pulito e giusto».
Eppure, a lungo, scelte politiche e preferenze dei consumatori sono andati altrove, verso un modello sciupone e fonte di malessere. Lo descrive da molti anni il bollettino telematico VegeWorld, ricco di notizie preziose, da tutto il mondo, proprio sui molteplici danni (un vero macello globale) legati alla catena di produzione industriale, alla circolazione e al consumo di alimenti animali e industriali.

Quando, nel non lontano 2007, finalmente un’istituzione internazionale come la Fao (Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura) dedicò un intero rapporto (Livestock’s Long shadow. Environmental issues and options) al collegamento fra cambiamenti climatici ed esplosione delle produzioni zootecniche, da settori produttivi e governi fioccarono le critiche. Ma si era aperta una porta. E così negli ultimi anni, da parte dell’Onu come delle università, si susseguono commissioni e rapporti a proposito della dieta davvero sana – e dei sistemi di produzione che la possono garantire. E il Comitato per la sicurezza alimentare (Cfs), la principale piattaforma internazionale in materia, si muove sulla base dei rapporti di un gruppo di esperti, l’High-Level Panel of Experts on Food Security and Nutrition (Hlpe) i quali di recente hanno pubblicato Nutrition and Food Systems, soffermandosi inoltre, nel testo Sustainable Agricultural Development for Food Security and Nutrition: what roles for Livestock?, sulla necessità di passare a un allevamento ridimensionato in quantità e migliorato nella qualità.

Siamo certo ancora molto lontani da un impatto massiccio sulle politiche agroalimentari mondiali e sulle scelte alimentari dei terrestri umani: il Rapporto sulla zootecnia nel mondo, del 2011, prevede pur sempre un quasi raddoppio del consumo di carne entro il 2050 e un aumento del 60% quanto ai prodotti caseari entro il 2050; parallela mente la produzione di biologico è ancora minoritaria, e il fast-food globale non accenna a diminuire. Agli 820 milioni di sottonutriti occorre aggiungere un miliardo di obesi e globalmente due miliardi con deficienze in micronutrienti. I «17 Obiettivi» per lo sviluppo sostenibile dell’Onu sono ancora lontani e gli Accordi di Parigi sul clima o gli obiettivi di Aichi della Convenzione sulla biodiversità non sono certo favoriti dal sistema agroalimentare attuale.

Ma la consapevolezza fra istituzioni e cittadini cresce, diventando addirittura di moda, almeno a parole: il settimanale The Economist sostiene che il veganesimo (stile di vita che prescinde dal consumo di prodotti animali, non solo nella dieta) diventerà mainstream nel 2019.

E, soprattutto, la nota rivista medica Lancet lancia la ricetta della dieta universale, sana e al tempo stesso amica del pianeta. Indica la soluzione win-win il rapporto Food in the Anthropocene: the Eat-Lancet Commission on healthy diets from sustainable food systems, frutto del lavoro triennale compiuto da una commissione di 57 esperti impegnati in importanti istituzioni pubbliche e internazionali. Chiara la diagnosi: «I sistemi alimentari hanno il potenziale di garantire la salute umana e aiutare la sostenibilità ambientale, ma attualmente le minacciano entrambe. I trend attuali, combinati con l’aumento della popolazione a circa 10 miliardi nel 2050 acuiranno i rischi per le persone e il pianeta, in termini di impatto sul clima, inquinamento, perdita di biodiversità, eccessivo uso dell’acqua e dei suoli». Inoltre le «diete perdenti, ipercaloriche, con zuccheri aggiunti, grassi saturi, cibi industriali e carni rosse», spiega il rapporto, «provocano malattie e morti in quantità maggiori rispetto ad alcol, droghe, tabacco e sesso non protetto messi insieme».

La ricetta della commissione Eat-Lancet per nutrire tutti, non distruggere il clima e salvare fino a 11 milioni di vite all’anno è tutto sommato semplice: «La dieta sana è fatta in gran parte di ortaggi e frutta (se possibile 500 grammi al giorno), cereali integrali, legumi, semi oleosi e proteici, oli insaturi, basse o moderate quantità di pesce e pollame, zero o poca quantità di carni rosse, carni trasformate, zuccheri aggiunti e cibi raffinati».

Ma come arrivare a un modello alimentare che mette insieme «sostenibilità ambientale sul lato della produzione e positive conseguenze per la salute sul lato del consumo»? Per la «Grande trasformazione alimentare» auspicata dal rapporto Eat-Lancet non c’è una soluzione magica, occorre invece una convergenza sistemica fra scelte politiche (impegni nazionali e internazionali per la governance di terre, oceani e processi), economiche (passare dalla priorità del produrre tanto – magari per sprecare – a quella del coltivare e trasformare cibo sano), attenzione scientifica, informazione. Greenpeace, approvando il rapporto (come il Wwf e altre organizzazioni ambientaliste), chiede «al governo italiano e all’Unione europea una riforma radicale della Politica agricola comune che acceleri il sostegno verso una produzione sostenibile di ortaggi e verdure e riduca drasticamente quello a favore della produzione intensiva di carne e prodotti lattiero-caseari», che in certe aree del mondo vanno abbattuti del 90%.