Si farà l’ultimo, estremo tentativo, ma la strada sembra già segnata. Dopo due rinvii in sedici mesi da Bruxelles oggi è attesa l’ennesima doccia gelata per Macedonia del Nord e Albania, candidate all’apertura dei negoziati per l’adesione all’Ue.

Un rinvio miope, imbarazzante, difficile da digerire. Il probabile esito era apparso chiaro già martedì scorso quando la ministra degli affari europei francese Amelie de Montchalin era intervenuta al Consiglio degli affari generali invocando una riforma del processo di allargamento prima di procedere all’apertura dei negoziati per l’ingresso di nuovi Stati membri in Ue.

La posizione di Parigi non è certo nuova, ma negli ultimi giorni si è irrigidita dopo la bocciatura della candidata francese designata alla Commissione europea, Silvie Goulard. Una bocciatura che mette a rischio il programma di riforme della casa europea che per il presidente francese Emmanuel Macron è la condicio sine qua non di ulteriori adesioni al club dei quasi 27. Ma questa resa dei conti di Parigi getta delle ombre lì dove era necessario, se non urgente, fare luce.

In primo luogo ne uscirebbe compromessa la credibilità dell’Europa come attore globale. Finora l’allargamento è stato il suo strumento di politica estera più riuscito e questo nonostante i problemi che pur sono emersi dall’adesione dei Paesi dell’Europa centro-orientale. Non l’allargamento, ma la mancata armonizzazione delle politiche sociali e fiscali ha prodotto gli squilibri tra Est e Ovest, determinanti per l’insorgere dei populismi nel cosiddetto gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia). L

’allargamento nei Balcani poi è stata la più potente leva per risanare le ferite dei conflitti esplosi negli anni ’90 che miravano a ridisegnare la mappa dei Balcani sulla base di linee etniche cancellate dall’esperimento jugoslavo. Un progetto rimasto incompiuto che élites in crisi di legittimazione potrebbero riproporre in assenza di una reale prospettiva di integrazione nell’Ue.

Val la pena di sottolineare il termine reale. La gravità dell’ennesimo rinvio del Consiglio europeo risiede proprio in questo. L’ha ben riassunto il commissario europeo all’allargamento uscente, l’austriaco Johannes Hahn: «Se abbiamo posto ai nostri partner delle condizioni e loro le hanno soddisfatte, diventa sempre più difficile spiegare questi ritardi».

È ancora lunga la strada da percorrere per Skopje e Tirana, ma chiedere degli sforzi politici enormi, come la riforma della giustizia in Albania e l’accordo sul cambio del nome della Macedonia del Nord senza poi mantenere la parola, priva di qualsiasi credibilità l’intero processo. Al contrario, vanifica gli sforzi compiuti anche dal lato dell’Ue, il maggior donatore e investitore nella regione. Ma c’è di più. Da quando è scoppiata la crisi in Ucraina, nei Balcani si è assistito a una graduale espansione della Nato per neutralizzare la crescente influenza russa nella regione.

E ora dopo l’adesione del Montenegro e quella prossima della Macedonia del Nord, è il turno della Serbia. Spezzare l’asse Belgrado-Mosca equivarrebbe a mettere definitivamente la Russia fuori dai giochi. A questo è strumentale l’accordo di scambio di territori tra Kosovo e Serbia, un accordo scellerato che rispolvera una vecchia idea, quella di ridisegnare i confini su basi etniche, la stessa che aveva scatenato le guerre degli anni ’90.

Eppure «quell’idea è ancora viva», come ha ammesso il futuro premier kosovaro Albin Kurti, fermo oppositore dell’accordo, dopo l’incontro con l’ambasciatore americano in Germania Richard Grenell, incaricato (il giorno successivo delle elezioni in Kosovo) di seguire il dialogo tra Serbia e Kosovo. E questo a dispetto della risoluta opposizione in primis di Berlino e Londra.

La sola discussione era bastata un anno fa a scuotere l’intera regione da cui dipende in sostanza la stabilità della stessa Europa, ancor più ora con la minaccia jihadista che riprende vigore dopo l’offensiva turca e con la crisi dei migranti che travolge tutta l’area, dalle coste greche al confine bosniaco-croato. Il che fa sorgere un interrogativo: se l’Europa non è in grado di avere un progetto politico su un’area che è parte importante della sua storia, come può agire su altri fronti, dalla Siria alla Libia? Un interrogativo a cui da oggi sarà più imbarazzante rispondere.