Rue de Russie è una piccola via di Tunisi che collega la stazione dei treni alla medina. Due scuole di epoca coloniale, una di fronte all’altra in mezzo ai palazzi decadenti della città, sono state presidiate tutto il giorno di sabato 17 dicembre da militari chiamati a sorvegliare un voto importante per il paese: il rinnovo del parlamento.

STABILITO IL PERIMETRO di sicurezza, quello che è mancato sono state le persone che sono andate a esprimere la loro preferenza. Non solo in rue de Russie ma in tutta la Tunisia la popolazione ha boicottato, o semplicemente ignorato, un’elezione non sentita.

Il tasso di affluenza alle urne è stato dell’8,8 per cento (nel 2019 è stato più del 40 per cento), il più basso dal 2011 quando il piccolo Stato nordafricano ha intrapreso un percorso di transizione democratica dopo decenni di autoritarismo e la Rivoluzione della dignità e della libertà undici anni fa. Un percorso che dopo le elezioni di ieri si può definire definitivamente concluso.

C’è più di una risposta alla domanda sul perché di un astensionismo così alto. La prima e più importante riguarda il degrado delle condizioni economiche e sociali che ha interessato il paese dal 2011 a oggi. Una crisi cominciata nel 2008 che non si è mai fermata nel corso degli anni, anzi, la disoccupazione è continuata a salire così come l’inflazione, soprattutto a seguito della crisi sanitaria da Covid-19 e l’invasione della Russia in Ucraina.

A SCENDERE sono state le casse nazionali e i beni di prima necessità negli alimentari e nei supermercati come latte, zucchero, burro e farina. Oggi la Tunisia è un paese che non riesce più a importare generi alimentari per soddisfare il proprio fabbisogno interno. Il risultato è una popolazione che non vede più nello Stato una soluzione ai propri problemi e che ha provocato di fatto un’atomizzazione della società.

Gli anni della transizione democratica non hanno aiutato. I partiti che hanno dominato la vita politica della Tunisia semplicemente non hanno fornito risposte chiare ai problemi strutturali del paese dei gelsomini. Undici anni di (mal) governi hanno portato a una delegittimazione dei luoghi cardine del potere come il parlamento.

Un organo istituzionale che sabato scorso è stato rinnovato con regole d’ingaggio completamente diverse rispetto al 2019 e fortemente depotenziato. A dettarle è stato l’uomo che da un anno e mezzo ha deciso di dominare lo scenario nazionale: il presidente della Repubblica Kais Saied.

IL 25 LUGLIO 2021 con un colpo di mano il responsabile di Cartagine ha congelato l’Assemblea dei rappresentanti del popolo e sciolto il governo dichiarando una situazione «di pericolo imminente». Dopo avere assunto su di sé tutte le prerogative di governo e giudiziarie a suon di decreti presidenziali (il Consiglio superiore della magistratura è stato dimesso nel febbraio scorso), l’inverno 2022 ha sentenziato che il modello di Saied non ha funzionato, almeno a livello di numeri.

I risultati elettorali si conosceranno ufficialmente a marzo, già ora si può intuire di essere di fronte a una scatola vuota con un’assemblea che dipenderà dalla direzione dettata dal presidente della Repubblica.

L’8,8 per cento è la dimostrazione plastica di una sfiducia totale da parte dei tunisini nei confronti di tutto ciò che è politica a livello statale. Tuttavia c’è un’altra cosa che sta mancando: il tempo. Necessario per risollevare un’economia a pezzi, l’ultima soluzione si chiama Fondo monetario internazionale che dovrebbe garantire due miliardi di dollari di prestiti.

Ieri sarebbe dovuto essere il giorno della firma. L’Fmi ha però deciso di rinviare l’ultimo incontro per mancanza di garanzie. Nel frattempo Saied ha scelto di non rilasciare dichiarazioni ufficiali. Un silenzio che vale più di mille parole.