Per Matteo Renzi la vittoria di Emmanuel Macron, il centrista liberista a capo di un suo personale movimento, è una buona notizia. Il francese rottamatore dei vecchi schieramenti della V Repubblica, il giovane leader che ha fatto della «fiducia» la parola chiave della propaganda elettorale di En Marche!, il figlio dell’establishment, banchiere e ministro di Hollande ma venduto come l’uomo nuovo ben s’accoppia con l’ottimismo del discorso renziano, con il professionista della politica venuto da Rignano a vestire i panni dell’ anticasta.

Ma le similitudini transalpine si fermano qui, perché sugli equilibri europei così come sulla fisionomia del movimento prevalgono le differenze. Macron sull’Europa punta a rinsaldare l’asse con la Germania mentre sul piano interno l’operazione di sganciarsi dal partito socialista gli ha fatto prendere il volo verso il ballottaggio del 7 maggio.

L’ex premier Renzi, pur avendoci provato con tutte le sue forze, non è riuscito a cambiare il sistema istituzionale, è reduce da una sonora sconfitta referendaria, si ritrova impelagato nelle più insignificanti primarie della storia del suo partito. Dove il ruolo del povero Benoît Hamon, socialista del 6%, lo gioca l’ultimo dei socialisti nostrani, il ministro Orlando, rimasto solo a difendere la sinistra riformista nelle inutili primarie del Pd.

Un po’ di invidia invece bisogna confessarla per quel 20% guadagnato da Jean-Luc Mélenchon.

Certo, il sistema istituzionale presidenziale lo mette fuori gioco, e «Francia ribelle» è poco più di uno slogan. Tra populismo e antipolitica, la protesta sociale raccolta da Mélenchon è ricca di ambiguità. Come lo è questo cambio d’epoca, come dimostra la difficoltà di schierarsi apertamente nel ballottaggio, e come dicono le preoccupazioni verso una parte dell’elettorato di «Francia ribelle» che potrebbe o ritirarsi nell’astensione o addirittura votare per l’estrema destra xenofoba di Marine Le Pen.

Tuttavia solo l’idea che in Italia la sinistra radicale possa ambire alle prossime elezioni a quel 20% raccolto dal longevo combattente è pura fantasia. La condizione di afonia di quella che nel secolo scorso era la più forte sinistra europea è purtroppo sotto i nostri occhi. La crisi del vecchio partito, il minoritarismo delle sue varie componenti ne descrivono la condizione. Né la nostra disastrosa situazione economica ha prodotto movimenti sociali capaci di rinnovare e rappresentare la sofferenza e il disagio delle nuove povertà.

Abbiamo di fronte la diaspora di un ceto politico che riverbera la sua debolezza nella frantumazione senza fine, e anche nella mancanza di leadership. Nessun Mélenchon all’orizzonte e semmai il suo ologramma, gli accenti sovranisti, il «protezionismo solidale», l’ecologismo ben strutturato lo fanno assomigliare più a un grillismo di sinistra con i piedi saldamente piantati nella trentennale esperienza di dirigente del partito socialista.

La Francia è lontana per una sinistra che appare divisa tra un grillismo o un renzismo di complemento.