Strategia dell’abbandono. C’è già chi la chiama così, anche perché nelle zone demolite dallo sciame sismico che dallo scorso agosto non dà tregua, l’immobilismo è qualcosa in più di una sensazione: è il tempo che passa senza che nulla accada, la promessa di mantenere le promesse fatte in precedenza, l’idea che i paesi della fascia appenninica tra le Marche, il Lazio, l’Umbria e l’Abruzzo non rinasceranno mai. È anche una questione di numeri, perché la gestione della ricostruzione è soprattutto un’odissea burocratica in cui la priorità è sempre l’equilibrio di bilancio, non le necessità di un territorio che quasi non esiste più: è il terremoto dell’austerità.

La Protezione civile ha stimato i danni agli edifici privati in un totale di 12.9 miliardi di euro (su 23.5 miliardi totali), ma malgrado quello che è stato scritto nel decreto (rifinanziamento al 100% di tutte le case all’interno del cratere, e al 50% delle seconde case fuori dal cratere), nella convenzione stipulata il 17 novembre scorso tra Cassa Depositi e Prestiti e Associazione Bancaria Italiana, il limite massimo di spesa che verrà finanziato tramite il meccanismo del credito d’imposta è pari a 1.5 miliardi, con un plafond annuale che non potrà superare i 60 milioni di euro, secondo quanto previsto dalla Legge di Stabilità del 2016. E già così viene fuori che, nella migliore delle ipotesi, ci vorranno 25 anni per ricostruire.

Il primo disastro interamente gestito in epoca di austerity porta con sé una serie di incognite e pratiche dalla difficilissima gestione.
«Se un cittadino ha subito un danno mettiamo di 150mila euro – spiegano gli avvocati di AlterEgo, studio romano che collabora con le Brigate di Solidarietà Attiva e Scossa Solidale ad Amatrice e dintorni -, per ottenere il contributo dovrà effettuare una gara di appalto, tra almeno tre imprese iscritte all’Anagrafe antimafia, per individuare la ditta cui affidare i lavori e poi presentare una domanda all’Ufficio regionale per la Ricostruzione. Qualora venisse accettato, il cittadino dovrà stipulare un contratto di finanziamento beneficiario con una banca».

A questo punto il terremotato dovrà aprire due conti correnti diversi: uno vincolato, dove verrà accreditato l’intero ammontare del contributo; l’altro destinatario, intestato o alla ditta incaricata di ricostruire o al beneficiario stesso, se questi avesse anticipato le spese ammesse a contributo.

C’è però una condizione sospensiva, dicono ancora da AlterEgo: «Se il limite annuale di spesa viene superato, il beneficiario deve accettare che l’erogazione del finanziamento non possa avere luogo, senza alcuna responsabilità in capo alla banca». In pratica, quando il plafond da 60 milioni finisce, l’istituto di credito può chiudere i cordoni della borsa e smettere di pagare l’impresa. Il rischio, a questo punto, è che, finiti i soldi, le ditte abbandonino i cantieri, con tempi di ricostruzione delle case sempre più lunghi, praticamente infiniti.

«L’unica soluzione a questa problematica – concludono gli avvocati di AlterEgo – è quella di implementare i finanziamenti statali destinati alla ricostruzione, scelta che il legislatore può attuare, essendo state svincolate le spese in questione dal Patto di stabilità. Scelta necessaria se si vuole realmente garantire il diritto dei terremotati di veder ricostruite le proprie case con tempistiche adeguate».

A lavori fermi, l’unica strada per provare a rimettere in piedi la propria abitazione è quella del mutuo, ma cosa si potrebbe dare in garanzia se tutto è distrutto? La strada appare così tracciata verso un’incredibile bolla immobiliare nel bel mezzo del cratere, una tempesta finanziaria sopra le macerie, in quello che appare come uno schema classico della crisi finanziaria d’inizio millennio.

Intanto devono finire le verifiche sugli edifici: l’ultimo dato parla di 116.299 sopralluoghi effettuati, ma già ribolle la protesta degli ordini degli Ingegneri e degli Architetti per la famigerata questione delle schede Fast, quelle che servono a dichiarare una costruzione agibile o inagibile: la richiesta è quella di sottoscrivere al più presto un protocollo d’intesa per completare i circa 60mila sopralluoghi che ancora mancano all’appello.

Sulla costa, dove ormai da mesi vive la maggior parte degli sfollati, tra alberghi e case in affitto, la situazione si sta facendo difficile: manca poco ormai all’inizio della stagione estiva e i titolari degli hotel cominciano a far presente che è quasi ora di sgomberare. A San Benedetto del Tronto il sindaco Pasqualino Piunti (Forza Italia) ha fatto sapere che i 400 abitanti di Accumoli ospitati negli hotel rientreranno tra il 15 marzo e il 30 maggio, quando i moduli abitativi dovrebbero finalmente essere pronti. Sorte diversa toccherà però a quelli del maceratese, per i quali ancora non c’è alcuna certezza sull’arrivo delle casette: qui ormai nessuno fa più previsioni e gli sguardi sono a metà tra la rinuncia e la rabbia: a sei mesi dall’inizio, cinquantacinquemila scosse dopo il 24 agosto, le casette consegnate sono appena diciotto, e a poco serve credere che ci sarà un’accelerazione da qui alla primavera.

Lo sfogo del commissario Vasco Errani davanti ai sindaci marchigiani («La ricostruzione non esiste») è un manifesto ambientale dell’austerità, una palude di burocrazia e soldi che non ci sono. Tutto è fermo, si muove solo la terra sotto i piedi.