La sinistra come al solito è entrata in fibrillazione man mano prendeva corpo l’imminenza della scadenza elettorale. Se la speranza in una quota proporzionale offriva una occasione alle forze minori, lo sbarramento del 5% incuteva giustamente timore. Giustamente non perché non vi sia in Italia una sinistra ampiamente oltre tale quota. Ma perché come al solito si arriva alle scadenze elettorali senza avere alle spalle né un fermento sociale simile a quelli da cui sono nate le recenti esperienze greca e spagnola, né una comune radicalità di intenti paragonabile a quella di Melénchon o persino di Corbyn.

La sinistra italiana, un tempo guardata con invidia dalle sinistre di tutto il mondo, è ora il fanalino di coda, è «invertebrata», quasi non esiste. La preoccupazione diventava allora quella del superare il 5%. E così si parte dalla forma prima che dai contenuti. Dalle alleanze prima che dai programmi. Ed è quasi inevitabile, dopo aver dato a lungo prova di vocazione antiunitaria, dopo non aver saputo capitalizzare la vittoria del 4 dicembre, dopo aver praticato anni di politicismo senza presenza nei quartieri, nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle lotte.

Mettersi tutti insieme per saltare l’ostacolo del 5% è sembrata allora l’unica risorsa. Ma davvero è così? Senza un fine unificante, senza un programma condiviso? C’è chi vuole tornare al centrosinistra, e lo dice apertamente. C’è chi dice che il centrosinistra è ormai un residuo del passato, una prospettiva perdente. Non è una pura questione nominalistica: dietro quel nome, centrosinistra, per limitarci a come è stato declinato negli anni della cosiddetta “seconda repubblica”, vi è una immagine ben chiara delle compatibilità di sistema, del cosa si può fare e non fare, del rapporto (di alterità o di convergenza) rispetto a ceti, classi sociali, raggruppamenti politici e di potere.

Come faranno questi due schieramenti – pro-centrosinistra e anti-centrosinistra, ovvero pro-alleanza col Pd e anti-alleanza col Pd – a presentarsi insieme? Come chiederanno voti, con quale credibilità? Per poi scindersi subito dopo le elezioni, sinistra di governo e sinistra di opposizione? Si è sicuri che questa armata Brancaleone attirerebbe suffragi? Certo dai gruppi più militanti, ma tra gli elettori? I “grandi numeri” spesso seguono logiche diverse. Eppure questa volta – senza maggioritario – non dovrebbe esservi il richiamo del voto utile, o almeno non dovrebbe esservi nella misura del passato.

A mio avviso il ragionamento va capovolto. Oggi l’obiettivo della Sinistra non può essere il governo, non può e non deve esserlo. Dobbiamo uscire dalle ubriacature dei fumi del maggioritario respirati per vent’anni. Che governino, lor signori. La ricostruzione della nostra cultura e la inversione del “senso comune” che pervade la società, la costruzione di un nuovo senso comune di massa è lavoro non breve. Inutile raccontarci il contrario. È una “lunga marcia”, nella società e anche nelle istituzioni. Il parlamento serve, non solo come tribuna. Ma è appena un momento, una delle tante “trincee” di una lotta più complessiva. Dall’opposizione si può e si deve costruire un percorso che riaggreghi veramente, che unifichi i militanti dispersi, non perché si deve andare al voto e superare uno sbarramento. Ma perché si vuole costruire una forza di alternativa sistemica che dia risposte nuove (spesso opposte a quelle del centrosinistra) su punti fondamentali: redistribuire lavoro e reddito, rilanciare l’intervento pubblico, una imposizione fiscale fortemente progressiva, l’investimento nella scuola, nell’università e nella ricerca, il rafforzamento del Sistema sanitario nazionale, la lotta ai Trattati europei, la rinuncia alla guerre e agli armamenti, insomma l’applicazione e il rilancio della Costituzione del 1948, nata dalla Resistenza e imperniata sul suo art. 3.

Invece che da una unità last minute, ripartiamo da un programma radicale di cambiamento. Vediamo chi ci sta, iniziamo la nostra “lunga marcia” a partire dalle prossime elezioni, ma senza pensare che avere dieci o venti deputati sia dirimente. È più importante che una nuova “volontà collettiva” finalmente si manifesti e si organizzi, inizi a operare nei territori, dia vita a una organizzazione politica aperta e plurale, non identitaria ma che rispetti le diverse identità, che promuova gradatamente una sua nuova sintesi culturale unitaria, a partire dai nodi programmatici dirimenti, da una proposta chiara di alternativa sistemica. E che resti in campo in modo duraturo, senza cambiare nome, simbolo, alleanze e orientamenti di fondo ogni due anni o a ogni elezione. Solo così la Sinistra può diventare credibile.