L’Associazione Italiana di Epidemiologia (Aie) riunisce i principali esperti italiani sulla diffusione delle malattie, non solo infettive, nel nostro paese. Nei giorni scorsi l’Aie ha diffuso una lettera aperta indirizzata alle autorità politiche e sanitarie per esprimere le raccomandazioni degli epidemiologi per il «superamento graduale dell’attuale fase di gestione dell’emergenza». Il documento è una lista breve ma densa sulle cose da fare.

La prima raccomandazione riguarda l’analisi dei dati recenti. Il lockdown, con i suoi spostamenti circoscritti a pochi ambiti è un laboratorio ideale per gli epidemiologi, perché permette di individuare in modo molto più preciso i luoghi del contagio. Secondo l’Aie, i casi recenti «forniscono indicazioni per le future azioni», come «la quota di trasmissione intrafamiliare» e l’identificazione di «ambiti lavorativi a rischio». È dunque necessario includere nei report sui casi la descrizione del focolaio di infezione (casa, lavoro, ospedale, Rsa) «per valutare in modo corretto l’attuale numero di nuovi casi».

Ma il punto decisivo riguarda la sorveglianza del contagio: l’identificazione tempestiva dei casi e il contact tracing, senza i quali l’arrivo di una seconda ondata epidemica è scontata. Purtroppo, l’ultimo rapporto dell’Iss racconta che il tempo tra sintomi e diagnosi si sta allungando, dai tre giorni di fine febbraio ai sette giorni di inizio aprile. Il sistema è stato messo a dura prova e la disponibilità iniziale di tamponi è diventata presto insufficiente. L’emergenza non giustifica questo ritardo, spiega Salvatore Scondotto, direttore del servizio di sorveglianza ed epidemiologia della regione Sicilia e presidente dell’Aie. «È importante garantire la massima tempestività nella capacità sia diagnostiche, che laboratoristiche, che isolamento e controllo dai soggetti contagiati e dei loro contatti. Tale caratteristica va mantenuta costante anche nei periodi di maggiore impegno del sistema».

Per fermare le catene di contagio non basta installare una app sul telefono o aumentare la disponibilità di reagenti per i test. L’intervento necessario è più complesso. Riguarda innanzitutto le persone direttamente impegnate in un lavoro poco visibile soprattutto quando è efficace. «Si pone la necessità di rafforzare la prima linea di difesa sul territorio costituita dai servizi di prevenzione presenti in tutte le Asl, che attraverso tali interventi potranno consentire, volta per volta, l’adozione di misure tempestive per interrompere il contagio», spiega Scondotto. «Parallelamente è necessario garantire l’offerta dei test con la necessaria tempestività. Un grande lavoro sul territorio che richiede disponibilità strutturali, organizzativo e di personale, che rischia, altrimenti, di risultare efficace a macchia di leopardo, quindi in modo disomogeneo per aree geografiche». A questo scopo servono competenze elevate, ma non solo quelle: «vanno coinvolte persone esperte, epidemiologi addestrati a reagire rapidamente e che possano dirigere personale anche non necessariamente esperto, ma motivato, dopo un breve addestramento». Non è dunque un obiettivo irraggiungibile.

Oltre a prevenire nuove ondate, bisogna preoccuparsi di far scendere quella attuale, ancora tutt’altro che superata. Preoccupa un numero di contagi che scende così lentamente? «L’andamento della curva epidemica appare disomogeneo tra diverse aree e ovviamente la diffusione è risultata più limitata nelle aree in cui le misure di isolamento generalizzato sono intervenute quando la circolazione del virus era più contenuta», spiega Scondotto. «Come epidemiologi, ci stiamo interrogando anche su questo aspetto e non escludo a breve proposte o osservazioni anche riguardo ulteriori strumenti di lettura di tale fenomeno».