La sceneggiatura si compone da sola. Pezzo dopo pezzo, quasi un puzzle. Una squadra brasiliana che mai aveva conosciuto la grandezza, proprio come il Leicester due anni fa primo in Premier League, arrivava in finale di Copa Libertadores, il più grande trofeo per club in Sudamerica. Poi la tragedia; il 28 novembre 2016 l’aereo che portava la squadra in Colombia per la partita d’andata, precipita provocando morti, dolore, commozione in tutto il mondo e solo qualche superstite. Poi come in una favola, un anno dopo quel team è riemerso, tornando a qualificarsi di nuovo per la Copa Libertadores: la Chapecoense è tornata di nuovo all’attenzione dei media. A ricordarla in occasione del match casalingo con l’Atalanta, anche il Torino è sceso in campo con la maglia verde, in omaggio alla Chape.

In comune d’altronde c’è quella sofferenza impressa sul retro delle maglie, quelle nubi nere di Superga mai svanite nella mente dei tifosi granata, quasi 70 anni dopo. Cicatrici che non possono rimarginarsi facilmente, lo racconta la letteratura del calcio, in generale dello sport, che spesso ha dovuto dedicare pagine alle sciagure aeree, come quella dei Busby babes, i ragazzi di sir Matt Busby, lo stratega per eccellenza del Manchester United, prima della comparsa di Alex Ferguson, precipitati a Monaco di Baviera nel 1958.

Senza dimenticare i ragazzi della nazionale di calcio dello Zambia schiantati sulle coste guineane nel 1993. E così un anno fa il Brasile, era costretto a fermarsi. La squadra del Chape che avrebbe dovuto contendere la Libertadores al Nacional di Medellin non c’era praticamente più. I club prestavano calciatori allo sfortunato club per consentirgli di finire il campionato, il Nacional di Medellin rinunciava alla Libertadores vinta, assegnata di diritto ai brasiliani, con fondi per rifondare la squadra. E anche fuori dal Sudamerica, era una vera gara di solidarietà, di vicinanza tra calciatori che si proponevano di lavorare gratis e l’invito di top club, come il Barcellona al Trofeo Gamper, il primo atto stagionale della squadra spagnola nel suo stadio, il Camp Nou.

Nel frattempo fioccavano idee di film sulla tragedia, libri, testimonianze inedite, anche perché emergeva la potenza di alcune storie, come quella del portiere Nivaldo, circa 300 partite con il Chape ma che per uno strano gioco del destino non era salito sull’aereo maledetto per la Colombia. Il titolare, Danilo, sarebbe morto dopo qualche ora. Nivaldo si è sentito un miracolato, sfuggito alla morte, ma ormai era come svuotato e non aveva più il coraggio, la voglia, di rimettere i guantoni e scendere in campo. E come lui, il difensore Martinuccio, niente check in per un problema personale. Ma non poteva finire così, non doveva.

Dopo un mese il club aveva di nuovo 25 calciatori. Ad aprile 2016 vinceva il campionato statale, con la testa alla Libertadores, stentando però in campionato, nel famoso Brasilerao, dove ha anche rischiato la retrocessione. Quella maglia, l’attenzione mediatica, il dolore si sono fatti sentire. Poi dieci partite senza sconfitte, la risalita, sino al risultato epico: ottavo posto finale nel torneo, la Chape di nuovo qualificata per la Copa Libertadores, seppur con i playoff per un posto ai gironi che andrà conquistato tra un paio di mesi. La federcalcio brasiliana aveva proposto alla Chape un accordo per evitare d’ufficio la retrocessione per tre anni. Niente da fare, c’era un destino da sfidare, per una di quelle storie di vita che spesso lo sport riesce a raccontare, nonostante tutto.