A Barack Obama era toccato due volte. A Donald Trump quattro. Il ritorno in patria delle salme di militari caduti in servizio, il cosiddetto “trasferimento dignitoso”, al cospetto delle massime autorità politiche e militari schierate sulla pista della Dover Air Force Base, in Delaware , è cerimonia a cui nessun presidente degli Stati Uniti vorrebbe assistere. E neppure mostrare al pubblico. George Bush padre arrivò infatti a imporre la censura sul rientro dei resti dei caduti in guerra.

L’impose nel 1991 e per 18 anni sia Bill Clinton sia George W. si sono attenuti alla direttiva. Con una sola eccezione, dopo l’attacco suicida al cacciatorpediniere USS Cole nell’ottobre del 2000, che costò la vita di 17 marinai. Dopo l’invasione dell’Iraq, nel 2003, alla base di Dover sono rientrate segretamente oltre 4200 bare di caduti avvolte nella bandiera a stelle e strisce. Biden era da poco vicepresidente di Obama, e definì una vergogna la censura imposta da Bush, che costringeva le salme a rientrare in patria “di soppiatto”. Anche spinto da Biden, Obama decise dunque di rendere pubblico il dignified transfer dei caduti.

BIDEN DEVE AVER pensato all’epoca in cui il ritorno dei 13 caduti alla base di Dover sarebbe avvenuto senza il clamore che ha avuto e ancora ha in questi giorni. Gli avrebbe giovato la censura? Ai due Bush no, contribuì ad alimentare, anche se non ce n’era bisogno, la loro fama di guerrafondai senza pietà. Sarebbe servita a contenere almeno un po’ la caduta nei sondaggi che lo sta colpendo? Certo, le immagini da Dover della coppia Biden e del vertice governativo e militare, e poi tutti i dettagli che sono stati raccontati dell’incontro spinoso con i familiari dei caduti – compresa la protesta di parenti che non l’hanno voluto neppure incontrare – hanno aggiunto un nuovo brutto capitolo a quelli disastrosi della storia del ritiro dall’Afghanistan. La censura, con l’inevitabile fuga di notizie e d’immagini, sarebbe stata però anche peggio.

C’è una logica perversa in queste cerimonie pubbliche di lutto. Esse devono essere seguite dalla vendetta. Che in gergo è chiamata retaliation, ritorsione. Oggi immediata. E con la precisione millimetrica dei droni – secondo il generale Vincenzo Camporini “possono colpire obiettivi piccolissimi come una foglia anche da enormi distanze” – da far pensare che i dieci civili uccisi, sette dei quali bambini piccoli, siano stati presi di mira di proposito. Erano loro i terroristi dell’Isis-K, vero?

La guerra tecnologica e telecomandata da remoto non solo è una risposta punitiva ma annuncia un futuro in cui non ci sarà più il triste spettacolo che si è visto domenica alla base aerea di Dover: è questo il sottotesto della vendetta di Biden consegnato al pubblico americano. Non più bare di soldati ma civili, famiglie, donne e bambini colpiti, meno importanti di una foglia, perché si trovano nel posto sbagliato…
Iniziata da Barack Obama, la nuova frontiera della guerra affidata ai droni e alle diavolerie digitali entra in una fase matura con Biden, dopo il ritiro da Kabul. La ritorsione di domenica che ha annientato una sventurata famiglia – poneva “an imminent” minaccia all’aeroporto di Kabul – segna l’inizio di questa nuova fase, con grande giubilo del complesso militare industriale, americano e occidentale, che ha nuovi giocattoli con cui giustificare la sua esistenza e il suo futuro.

NEI PROSSIMI GIORNI si capirà se il precipitoso ritiro dall’Afghanistan avrà una coda di eventi drammatici o se l’intesa con i talebani avrà la capacità di allentare la tensione sulla Casa Bianca. La tempistica dell’uscita da Kabul, dopo appena sette mesi dall’insediamento, era dettata dal calcolo di non doverlo fare troppo a ridosso delle elezioni di medio termine. Che lasciare Kabul sarebbe stata una passeggiata nel parco, sarebbe stata follia non prevederlo. Un alto costo era nel conto e, per questo, Biden, contro il parere dei generali e di alcuni dei suoi consiglieri, aveva fretta di procedere adesso, per di più nel periodo delle vacanze del Congresso. È andata peggio delle peggiori previsioni. E adesso la riparazione dei danni assorbe tempo ed energie importanti, sottraendole a dossier urgenti a cui maggiormente tiene l’amministrazione Biden, primo tra tutti il grande piano d’intervento economico, che deve passare al Congresso, mentre Covid riprende a galoppare con oltre centomila casi al giorno. E l’arrivo dei profughi afghani diventa «un problema di sicurezza interna» secondo Trump e i suoi accoliti.

IN QUESTO SCENARIO spicca la vicenda di diversi milioni di famiglie americane sotto immediato sfratto, dopo la sentenza della Corte suprema che dà ragione ai proprietari di case. Sono famiglie colpite direttamente da Covid o dai suoi effetti sulle loro attività, per lo più famiglie nere e ispaniche, che dovrebbero beneficiare di una moratoria e dell’aiuto del governo federale per il pagamento degli affitti arretrati e in arrivo. Un piano che stenta a essere messo in pratica a livello statale, un ritardo che i proprietari non intendono accettare. Un grande problema per Biden, di fatto più rilevante – anche elettoralmente – delle ricadute della vicenda afghana. A conferma dell’evidente priorità del fronte di combattimento domestico rispetto a quello internazionale. Compreso quello terroristico. Fu lo stesso Biden, sull’onda dei fatti del 6 gennaio, a riconoscere che la minaccia principale alla sicurezza è data dal terrorismo interno, ribadendolo lo scorso 12 agosto a Charlottesville, in occasione del quarto anniversario dei disordini nella città della Virginia in balìa dei manifestanti suprematisti e neonaziasti. Una situazione di tensione che resta profonda e che può uscire fuori controllo, se la risicata maggioranza – nel Congresso e nel paese reale – dovesse cedere. Dopo i primi mesi dall’insediamento, di relativa ripresa, Biden è in evidente fatica. Ancor di più la sua squadra. E siamo solo agli inizi della nuova amministrazione.