Se per genocidio politico si intende un’operazione sistematica di annientamento di ogni forma di opposizione a favore del modello socio-politico ed economico delineato e imposto dalle élite, non c’è dubbio che quanto avvenuto in Colombia da più di un secolo sia esattamente questo.

Così ha evidenziato, in attesa della sentenza che sarà emessa a maggio, la 48ma sessione del Tribunale permanente dei popoli – il tribunale internazionale di opinione con sede a Roma presso la Fondazione Basso – che, sul caso colombiano, si è svolta dal 25 al 27 marzo a Bucaramanga, Bogotá e Medellín, su richiesta di 400 organizzazioni sociali.

COME HANNO INDICATO nel loro atto di accusa l’ex magistrato della Corte Suprema Iván Velásquez Gómez (già a capo della Commissione contro l’impunità in Guatemala) e la ex procuratrice Ángela María Buitrago (distintasi nelle indagini sulla scomparsa dei 43 studenti di Ayotzinapa in Messico), in Colombia «le élite hanno messo in atto una serie di meccanismi diretti a stroncare ogni voce di dissenso pericolosa per la loro egemonia», attraverso l’eliminazione fisica degli oppositori, ma anche «persecuzione, stigmatizzazione, repressione, scomparsa forzata, espulsione, tortura».

Una «pratica sistematica» di sterminio emersa con precisione dalle testimonianze di leader sociali e di comunità contadine, indigene, nere, Lgbt, che hanno evidenziato la responsabilità dello stato colombiano nel genocidio politico in atto nel paese. E lo hanno fatto, come al solito, di fronte a una sedia vuota: quella riservata al governo del presidente Iván Duque, il quale ha preferito disertare la sessione malgrado una trentina di parlamentari gli avesse chiesto di partecipare al processo per condividere la verità con le vittime e i loro familiari.

PER TRE GIORNI I GIURATI, tra cui Michel Fosrst, Luciana Castellina, Lottie Cunningham, Mireille Fanon, Raúl Vera, hanno potuto ascoltare circa 40 casi di gruppi sociali e politici vittime di genocidio. Come, per esempio, lo sterminio dell’Unión Patriótica, il partito politico nato dai negoziati di pace del 1984 tra il governo Betancur e le Farc nel 1984: «una tragedia – hanno denunciato Velásquez Gómez e Buitrago – che ha comportato la sua scomparsa come organizzazione politica, provocando un danno indicibile a migliaia di famiglie e alla nostra democrazia». E di fronte a cui «lo Stato non ha adottato alcuna misura seria per impedire e prevenire gli assassinii, gli attentati e le altre violazioni, malgrado l’evidenza della persecuzione in corso» (con oltre 3mila militanti uccisi).

Né si tratta di un caso isolato, come ha sottolineato padre Javier Giraldo ricordando come tutti i diversi processi di pace che hanno avuto luogo nel paese siano stati seguiti dall’«eliminazione dei leader che hanno firmato la pace e di molti degli ex combattenti». E la storia si ripete anche oggi, con l’assassinio, dalla firma dell’accordo di pace del 2016, di 259 ex guerriglieri delle Farc: come se li avessero disarmati per poterli uccidere più facilmente.