Un déjà-vu. Tutto cambia perché niente cambi. Dichiarazioni a destra e a manca sulla necessità di formare un nuovo governo che faccia riacquistare credibilità allo Stato.

Gebran Bassil – capo del Movimento patriottico libero (Mpl), fondato dal presidente Aoun, di cui è genero, già ministro delle Telecomunicazioni e poi dell’Energia – ha twittato che «la priorità è formare rapidamente un governo produttivo ed efficace e restaurare la fiducia nello Stato».

Aveva già provocato indignazione l’uscita sull’importanza di capire non perché le 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio fossero al porto, ma solo come fossero saltate in aria. Bassil è stata certamente la figura più bersagliata dai manifestanti durante quest’anno di proteste. Per loro è il simbolo per eccellenza dei malanni del Libano: nepotismo, corruzione sistemica, incapacità e inefficienza.

NABIH BERRI, LEADER di Amal e portavoce del parlamento, ha convocato una riunione dei suoi ai fini di un governo di unità nazionale. Sembra questa infatti la soluzione più probabile. Un governo che tenga conto dei suggerimenti delle potenze internazionali, ovvero Francia e Stati uniti.

LA VISITA DI MACRON a soli due giorni dal disastro e le uscite successive non lasciano spazio a interpretazioni. Già lunedì sera, subito dopo le dimissioni di Diab, il capo della diplomazia francese Le Drian aveva invitato il Libano a formare rapidamente un governo che si mostrasse al lato del popolo.

Il ministro libanese degli Esteri Wahhab ha ieri twittato che ci sono «pressioni internazionali in favore di un governo di salvataggio economico. Chi non ne faciliterà la formazione si espone a sanzioni americane ed europee e al congelamento dei propri conti». Posizioni ribadite domenica nel corso della conferenza internazionale che ha deciso lo stanziamento di 253 milioni di euro per il Libano.

Nel fine settimana è invece attesa la delegazione americana con a capo il sottosegretario di Stato per gli Affari Politici David Hale, ex ambasciatore in Libano. In agenda la linea francese sulle sanzioni ai leader più corrotti e il confine marino con Israele, tema anticipato già venerdì nella telefonata tra Aoun e Trump.

Sia Amal che Hezbollah hanno sempre osteggiato una risoluzione definitiva al problema, temendo che un intervento straniero favorisse Israele. Circola di nuovo il nome di Saad Hariri, eventuale premier di un governo di unità nazionale. Cittadinanza francese e saudita, oltre a quella libanese, se tenuto a bada dalla presenza di Hezbollah nel governo di ampia coalizione di cui è stato premier fino a gennaio, sarebbe ora l’uomo ideale per rappresentare gli interessi franco-americani.

ALLA VIGILIA della sentenza del Tribunale Speciale per il Libano, rimandata per via dell’esplosione, sui quattro affiliati di Hezbollah per l’assassinio nel 2005 di Hariri padre, sembra che la stretta attorno al gruppo sciita sia sempre più tenace e che mai come ora l’occasione sia propizia per annientare il Partito di Dio – e con esso la sua visione geo-politica del Libano – facendolo passare per il colpevole assoluto e non per uno dei colpevoli della rovina libanese. Tutto ciò mentre il bollettino Covid segnava ieri un nuovo record: 309 contagi e sette decessi.

A una settimana dell’esplosione, migliaia di libanesi hanno commemorato ieri a Piazza dei Martiri le vittime con una manifestazione commovente e dolorosa. E per il quarto giorno consecutivo si sono avuti scontri con la polizia. I manifestanti tentano ancora di prendere il parlamento. Al porto è comparsa una scritta: «Seppelliamo le autorità per prime».

LA TENDENZA, da parte di quel potere che si alimenta di sé, di frammentare i popoli attraverso la diseducazione sistematica alla sfera sociale e politica della vita, non è certo prerogativa libanese. Fa in modo che anche chi si ribella riesca a esprimere solo rabbia e frustrazione, non una visione.

Il potere fa in modo che il popolo non abbia accesso alla costruzione della consapevolezza di sé. Che non sia popolo. La devastazione della guerra civile, il modello neoliberista della ricostruzione hanno fatto da cassa di risonanza a questo problema.

I libanesi si trovano ora a dover far fronte, oltre che alle svariate crisi, a una sfida politica, civile, sociale imponente. Bisogna augurarsi che l’esplosione sia davvero quel punto di svolta, quel nuovo inizio che la piazza grida.