Il Labour targato Corbyn ha incassato una batosta alla by-election di Copeland, cittadina costiera della Cumbria, sul confine con la Scozia, un seggio che deteneva da 80 anni. La candidata laburista ha perso il duello con quella dei conservatori: Trudy Harrison ha vinto con 13.748 voti contro i 11.601 di Gillian Troughton, aumentando la percentuale di voti dei tories dell’8% e superando i laburisti di un congruo 6%. Una sconfitta attesa febbrilmente dai detrattori centristi di Corbyn, che odiano il segretario tanto da preferire la sua sconfitta alla vittoria del loro partito: e l’elettorato inglese post-referendum li ha accontentati.
A poco servirà il non trascurabile successo avuto nell’altra elezione straordinaria nel seggio di Stoke on Trent, nello Staffordshire, dove il candidato laburista Gareth Snell ha surclassato l’assalto in persona del neoleader dell’Ukip Paul Nuttall per 7.853 voti a 5.233: i livorosi ex padroni del partito – figure in disgrazia come il vecchio sodale di Blair Peter Mandelson e il figlio di Ralph Miliband, quel David ex ministro degli esteri (con Gordon Brown) svezzato dalla mammella blairiana che si vide soffiare la leadership dall’inconcludente fratello Ed – hanno riportato la temperatura cospiratoria al calor bianco.

Anche se Corbyn, che come un cyborg ha retto ogni attacco possibile e immaginabile alla propria leadership nei mesi scorsi con ben due primarie entrambe stravinte, non si muove. L’ha confermato subito dopo la sconfitta, ammettendo come autocritica che il messaggio del partito durante la campagna non è stato porto adeguatamente agli elettori. E ieri ha incassato il consenso ufficiale del suo ambiguo vice Tom Watson, che ha appena detto che il leader non si discute, nonostante l’insuccesso. «È stata una sconfitta assai deludente», ha ammesso Watson, aggiungendo però subito che «non è il momento di cambiare il segretario», ben memore delle recenti messe in scena dei moderati pur di espungere la dissonanza socialista di Corbyn dalla ninna-nanna neoliberale in cui il partito si è cullato per trent’anni.

A una lettura attenta del risultato di questa elezione straordinaria non sfuggiranno però abbondanti motivi per attenuare tanto sgomento. Le posizioni antinucleari di tutta una vita del Corbyn di lotta (quello che non si sarebbe mai nemmeno sognato di poter un giorno diventare leader di un partito ai cui margini era rimasto tutta la vita), non potevano andar giù granché bene agli elettori di Copeland, molti dei quali impiegati negli stabilimenti della vicina centrale nucleare di Sellafield. Copeland è un posto la cui l’economia dipende da posti di lavoro per i quali un Corbyn premier è visto come grave minaccia. Aggiungiamo pure che l’elezione si è tenuta per le dimissioni del deputato locale, il centrista Jamie Reed, nemico giurato di Corbyn e che lo stretto rapporto fra deputati e loro elettori, tipico del sistema britannico, potrebbe creare personalismi capaci di giustificare strappi profondi.

E poi c’è l’esito di Stoke, invece assai incoraggiante per Corbyn: l’Ukip del sordido Nuttall, degno erede di Farage, non è riuscito a vampirizzare l’elettorato Labour secondo i piani, relegandosi in un limbo post-Brexit. Che poi questo sia un fatto doverosamente ignorato dai moderati, che tornano così a snocciolare le loro litanie su «questo-Labour-che-nonsarà-mai-più-di-governo» fa parte delle miserie interne di partito ormai unito solo formalmente. Insomma, tanto rumore per nulla? No di certo. L’uninominale maggioritario britannico rende queste elezioni straordinarie un attendibile barometro per le future politiche e il neonazionalismo tory targato May stacca il Labour di ben 18 punti. La lotta, dentro e fuori il partito, continua.