Il Covid-19 è stato fronteggiato da inedite politiche fiscali espansive, ma sullo sfondo anche da politiche monetarie decisive per arginare la crisi. La quantità di moneta immessa nel sistema economico-finanziario è stata eccezionale.

Nel solo 2020 la Fed statunitense ha immesso 4.000 miliardi di dollari, pari al +26%, la più elevata percentuale dal 1943. Differentemente dalle crisi 2008-2011, qui anche la Bce è stata puntuale nell’immettere moneta. Insomma questa volta il movimento delle banche centrali per arginare la crisi derivante dal Covid-19 è stato contestuale e senza paragoni in termini quantitativi.

Il piano di vaccinazioni sta, seppur lentamente, riducendo la pericolosità del Covid e la ripartenza nel 2021 sembra avviata. Esistono ancora incertezze per le varianti, ma soprattutto per una possibile ripresa dell’inflazione, frutto anche di difficoltà emerse nel rifornimento di materie prime e dei colli di bottiglia che si stanno verificando nei sistemi di trasporto, specie marittimi, e che fanno temere per distribuzione e prezzi fino a Natale.

Se la ripartenza, effetto anche di un rimbalzo inevitabile, viene intravista, allora si torna parlare di come ridurre l’interventismo monetario delle banche centrali.

Dal 2020 Fed e Boj oltre ad immettere moneta avevano stabilito che l’obiettivo dell’inflazione al 2% diventasse medio, cioè il valore poteva superare il 2% a condizione che riequilibrasse per quantità e durata il periodo in cui risultava inferiore. Le banche centrali più interventiste in qualche modo provavano a modificare i loro target per ampliare il loro spazio di manovra. Oggi però la crescita appare avviata e da più fonti si comincia a riparlare di tapering (cioè di quel processo di ritirata appunto delle banche centrali). Già al simposio dei banchieri centrali di Jackson Hole (Wyoming) dovrebbe far capolino l’ipotesi. Sembra che la maggioranza del Fomc della Fed sia favorevole ad iniziarlo a fine del 2021 o al più tardi a inizio 2022.

Come già avvenuto dopo l’ultima crisi finanziaria, si è aperta una faticosa strada di rientro dal protagonismo delle banche centrali, faticosa in quanto fortemente temuta, in particolare dai mercati finanziari. Ridurre l’acquisto di asset da parte delle banche centrali e poi alzare i tassi d’interesse non è operazione semplice, poiché non è chiaro quanto la ripresa sia frutto dei supporti emergenziali o quanto di una parabola autonoma e autosufficiente del sistema economico-finanziario. Il rischio è quello di azzoppare immediatamente la ripresa stessa sul piano dell’economia reale oppure di far esplodere bolle sul quello finanziario.

Ciò che appare chiaro, ormai, è che qualsiasi tapering verrà avviato non sarà certo per riportare le lancette dell’orologio a prima della pandemia. Ecco perché non bisognerebbe enfatizzare troppo questa eventualità, non tradurla nella fine delle difficoltà che si verificheranno nel prossimo futuro.
L’esperienza della crisi del 2007 suggerisce che ormai ogni ondata di moneta e indebitamento, specie pubblico ma non solo, si assomma alla precedente, rendendo l’intento di ridurre quantità di moneta e debiti un’operazione impraticabile. La riduzione dell’interventismo, dunque, consente di arrestare la marea montante, ma non di riportare le acque al livello precedente.

Troppe sono le incognite e, forse, potrebbe mancare il tempo per l’arrivo di una nuova crisi. I meccanismi di crescita economica contemporanei sono talmente fragili e incerti da non far ipotizzare grandi piani di recupero e stabilizzazione nel tempo.

La nuova normalità (ciò che negli Usa chiamano new normal), quindi, si attesterà probabilmente su livelli di debito e massa monetaria inediti, seppur ridotti rispetto ai picchi attualmente raggiunti. In attesa del prossimo shock per cui sarà necessario intervenire nuovamente con moneta e debiti ulteriori. Non è la fine di un sistema, ma un indice del suo stato di crisi quasi permanente.