Nonostante non vi sia ancora nessun vaccino approvato dalle autorità sanitarie, i risultati promettenti condivisi dalle compagnie farmaceutiche – Pfizer, Moderna e AstraZeneca – hanno alimentato la speranza di essere finalmente giunti alla fine della pandemia. O quantomeno, di scorgerla all’orizzonte.

TUTTAVIA, ANALIZZANDO i dati demografici dei partecipanti sottoposti ai test clinici, si nota come le persone provenienti da minoranze etniche siano state meno incluse. Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, aveva detto che per essere rappresentativi, i test clinici avrebbero dovuto coinvolgere le minoranze in percentuali simili a quelle demografiche. Il rischio, infatti, è che se un vaccino viene testato su una popolazione a maggioranza bianca non sia poi in grado di produrre le stesse risposte immunitarie su afroamericani, ispanici, asiatici e nativi.

Dal 2006, ad esempio, l’anno in cui venne commercializzato dalla Merck & Co. il vaccino per il Papilloma Virus, il rischio di insorgenza di cancro all’utero è stato dimezzato. Tuttavia, lo stesso vaccino ha molta meno probabilità di funzionare nelle donne afroamericane, poiché soggette a ceppi diversi del virus che non vennero debitamente analizzati in quanto non incluse tra i test clinici.

LO STESSO AVVIENE se si considera il vaccino per l’Epatite C e la minoranza latinoamericana. Questi ultimi, nonostante abbiano dei tassi più bassi di contrarre l’Epatite C, hanno il 40% di probabilità in più di morire, poiché nei test clinici, solamente l’1% dei partecipanti era latinoamericano. Secondo i dati dell’Us Census Bureau, oggi gli afroamericani rappresentano il 13% della popolazione, gli asiatici il 6%, gli ispanici il 18,5%, e i nativi americani circa l’1,5%. Ma durante le prime due fasi della sperimentazione, i dati messi a disposizione da Pfizer, Moderna e AstraZeneca non erano molto incoraggianti.

Ad agosto, ad esempio, solo il 18% dei partecipanti che avevano preso parte ai test clinici di Moderna proveniva da minoranze etniche. Pfizer arrivava al 26%. Dai dati di AstraZeneca pubblicati su Lancet, invece, saltava all’occhio la totale assenza di neri coinvolti e la bassissima percentuale di asiatici. Quest’ultimo, tuttavia, essendo un vaccino sviluppato in Gran Bretagna, doveva rispecchiare un campione demografico diverso (in UK i neri rappresentano il 3,4% della popolazione e gli asiatici il 7,5%).

CON L’AVVIO DEI TEST clinici su larga scala, la cosiddetta fase 3, dopo una serie di campagne di
sensibilizzazione e le raccomandazioni da parte della Food And Drugs Administration e il National Health Institute, il problema è stato in parte corretto in corsa, anche perché dal rispetto di queste percentuali dipendeva una parte dei fondi pubblici dispensati dal governo.

Sempre Fauci però aveva detto alla Cnn che, considerato quanto la pandemia avesse colpito in modo così sproporzionato le minoranze etniche, queste ultime avrebbero dovuto prendere parte ai test clinici in percentuali ancora più alte. Addirittura, azzardava un 60%. Afroamericani, ispanici e nativi americani hanno un rischio tre volte maggiore di contrarre il virus rispetto ai bianchi, e cinque volte maggiore di essere ricoverati, poiché impiegati in lavori essenziali impossibili da svolgere da remoto e maggiormente affetti da patologie pregresse.

Le linee guida date a inizio pandemia, inoltre, intimavano a chi aveva sintomi di non recarsi in ospedale, ma contattare il proprio medico di base. E i dati mostrano che una significante porzione di afroamericani non sapeva chi chiamare poiché non aveva un medico di base.

MA ALLORA PERCHÉ le minoranze non hanno preso parte alle sperimentazioni? In un’intervista ad Al Jazeera, Linda Goler Blount, presidente della Black Women’s Health Imperative, un progetto nazionale per la salute delle donne afroamericane, ha spiegato che la prima ragione per cui i neri non prendono parte agli studi clinici è perché, banalmente, non gli viene chiesto.

Dall’altra parte, vi è anche una profonda e giustificata diffidenza da parte delle minoranze nei confronti del sistema sanitario americano. Spesso la si riconduce all’esperimento agghiacciante sulla sifilide di Tuskegee. In questo piccolo paese dell’Alabama, abitato per oltre il 90% da afroamericani, il governo statunitense attuò un vero e proprio esperimento clinico che ebbe come oggetto lo studio dell’evoluzione della sifilide non curata tra la popolazione afroamericana. Il progetto andò avanti per quarant’anni, dal 1932 al 1972, nonostante nel 1940 fu provata l’efficacia della penicillina come cura della malattia, causando morti e trasmissioni di sifilide congenita nei bambini.

MA I RETAGGI di400 anni di schiavitù prima e segregazione poi condizionano ancora oggi il sistema sanitario. Le donne afro americane, ad esempio, hanno il triplo delle possibilità di morire per complicanze legate al parto rispetto alle donne bianche. Il 60% di queste morti sarebbe evitabile. Questo accade in parte poiché hanno accesso a strutture sanitarie di minor qualità e patologie pregresse; in parte perché circolano ancora oggi stereotipi tra medici e infermieri su come le donne nere abbiano nervi meno sensibili e quindi sopportino meglio il dolore, cosicché sintomi delicati rischiano di non essere presi in considerazione.

L’INTERA MODERNA CHIRURGIA ginecologica, d’altronde, dipende dalle scoperte di James Marion Sims, considerato il padre della ginecologia statunitense, che usava schiave afroamericane senza anestesia per condurre i suoi studi, nonostante l’anestesia fosse già conosciuta a quel tempo. E appena due mesi fa sono state scoperte, in una struttura per la detenzione degli immigrati, le sterilizzazioni forzate ai danni delle donne latinoamericane.

Uno studio ha inoltre dimostrato come il software che guida alle cure di decine di milioni di persone, permettendo loro di prenotare le visite, privilegia sistematicamente i pazienti bianchi rispetto a quelli neri, costringendo questi ultimi a liste d’attesa tre volte più lunghe. In questo caso, il razzismo è finito per rimanere cristallizzato anche all’interno della tecnologia. E nel frattempo, malattie che colpiscono prevalentemente gli afroamericani, come l’anemia falciforme, tendono a ricevere meno fondi per la ricerca.

A fronte di queste considerazioni, è più facile comprendere sia lo scetticismo nel prendere parte alle sperimentazioni, sia il fatto che la percentuale di diffidenti tra neri e ispanici nei confronti dei vaccini sia molto più alta che tra i bianchi. Secondo Glenn Ellis, professore dell’Istituto di Bioetica dell’Università di Tuskegee, è un problema che andrebbe affrontato con l’istruzione e la riconciliazione, ma che non può essere normalizzato.

«LE RAGIONI DI QUESTE DISPARITÀ non sono né biologiche né genetiche. Sappiamo che siamo per il 99.99% tutti identici. Ma le ricerche dicono anche che sono le determinanti sociali a essere le maggiori responsabili dei fattori di salute e di rischio di una persona. E sono queste che vanno indagate». Per risolvere il problema, c’è bisogno che le soluzioni siano strutturali, com’è strutturale il razzismo che ne è alla base.

Il primo passo, come ha suggerito Colleen Campbell, PhD in African American Studies presso l’Università di Princeton, è di tipo comunicativo: «Descrivendo i neri americani come biologicamente a rischio per la malattia, da una parte si comunica il messaggio che i corpi neri siano intrinsecamente difettosi e inclini alla malattia; dall’altra si oscurano le cause strutturali alla base delle disparità razziali nel sistema sanitario».
Può sembrare secondario, ma non lo è. La razza, che non esiste, non è un fattore di rischio. Il razzismo sì.