La calma ostentata della cancelliera Angela Merkel, il nervosismo corrosivo della borsa di Francoforte, le minacce lapalissiane del ministro delle finanze Wolfgang Schäuble (che ha ripetuto «chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro»). Tre sintomi inequivocabili della paura tedesca per il voto inglese, quanto della navigazione «a vista» della Bundesrepublik, che sulla Brexit non ha mai elaborato neppure la bozza di un piano B.
Di fatto, a Berlino, nel D-Day dell’Ue, si riescono a misurare a malapena le implicazioni ovvie e «naturali» dell’esito del referendum oltre la Manica, al di là del successo di leave o remain.

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Di sicuro, per adesso, solo il timore per l’incalcolabile effetto domino sull’eurozona, dall’Olanda e fino alla Francia, a sentire Marine Le Pen. Altrettanto certo è anche il mantra di Mutti Merkel che fino all’ultimo minuto utile ha recitato l’unica litania ufficiale: «Mi auguro che la Gran Bretagna rimanga nell’Unione, ma è una decisione che spetta ai cittadini britannici». Dichiarazione da mesi pronta a essere declinata all’imperfetto o al condizionale passato, fanno sapere nell’inner circle della cancelliera.

Nel frattempo negli osservatori economici-finanziari tedeschi gli esperti immaginano i rischi ma anche le opportunità.

E così, a fianco del pericolo di «perdita di posti di lavoro, crollo delle esportazioni e contrazione della crescita per la Germania», puntualmente riportato sui più autorevoli quotidiani tedeschi, compaiono i vantaggi della Brexit per le industrie locali, «liberate» dalla concorrenza delle multinazionali con sede nel Regno Unito. È la dimostrazione che anche a Berlino non tutto il male nuoce, mentre a Francoforte c’è chi già sogna la nuova city dell’Europa in versione ridotta.

In ogni caso la Gran Bretagna, isolata o connessa all’Unione europea, rappresenta il terzo mercato per il made in Germany: l’ufficio federale di statistica squaderna le cifre della bilancia commerciale tra Berlino e Londra con il valore dei beni scambiati nel 2015 (127,6 miliardi di euro). Solamente negli ultimi 12 mesi le imprese tedesche hanno venduto 89,3 miliardi di merci al Regno Unito.

Mercato imprescindibile soprattutto per Mercedes, Bmw e Volkswagen e altri produttori del settore automotive che hanno incassato quasi 30 miliardi dai concessionari oltre Manica e temono, più di ogni altro, la svalutazione della sterlina e il conseguente aumento dell’inflazione nell’isola. A questo si aggiungono 2.500 aziende tedesche con filiali in Gran Bretagna che danno lavoro a circa 400 mila dipendenti: in caso di Brexit il loro bilancio ammonterebbe a 6,8 miliardi di perdite. Lo evidenziano i consulenti di Euler Hermes, società del Gruppo Allianz e leader mondiale dell’assicurazione del credito. Fa il paio con il pronto rimbalzo del sondaggio della camera di commercio anglo-tedesca che registra l’80% degli imprenditori preoccupati per il No al referendum e il 61% che ha già pianificato un consistente calo del business. Tuttavia, per esclusione, spiccano anche le circa 150 aziende che beneficerebbero dell’uscita di Londra dal mercato comune, insieme ai risultati dello studio commissionato dal colosso multimediale Bertelsmann che traduce la Brexit nell’aumento degli affari e della competitività per l’industria chimica tedesca nell’ordine dello 0,5-1%.

Ballano i pro e i contro, dunque. Un po’ come il Dax, l’indice di riferimento della borsa di Francoforte, che nell’ultima settimana ha oscillato nervosamente sulla soglia dei 10 mila punti (anche se ieri la seduta ha chiuso con +1,57%). Turbolenza del mercato, volatilità degli investimenti ma anche «terrorismo» di chi controlla capitali comunque refrattari a qualunque limitazione. Il problema, casomai, è politico. Il referendum inglese, al di là dell’esito delle urne, è benzina da gettare sul fuoco per i populisti di Alternative für Deutschland: due terzi dei suoi elettori vedrebbero con favore un analogo referendum sulla Gerxit, perché l’uscita della Germania dall’Ue coinciderebbe anche con la fine della «politica della porta aperta» agli immigrati di Angela Merkel, degli «aiuti» alla Turchia di Erdogan o alla Grecia di Tsipras.