Con la trasformazione dei mezzi di comunicazione, con la perversa pratica delle «fake news», lo constatiamo ogni giorno, lo spazio della sfera pubblica e della politica è diventato un campo di falsità e di manipolazioni. Riprendendo la saga del suonatore di Hamelin, che con il suo piffero magico trascina dietro di sé una lunga schiera di topi, Tullio Altan lo commentava così, in modo graffiante, in una sua vignetta dell’«Espresso»: «Peggio suono, più quel cretino mi segue». In questo problematico contesto colpisce, al contrario, per chi ami guardare nella storia, la compattezza e la forza dell’Illuminismo settecentesco, strenuamente impegnato, dentro un aperto dibattito in nome della «verità», per la distruzione dei pregiudizi, per una nuova organizzazione delle scienze dell’uomo a vantaggio del benessere della società, per un’instancabile lotta per i diritti dell’uomo, in vista di una patria cosmopolita di liberi e uguali.
Vuole rispondere alla domanda «Che cosa è stato l’Illuminismo?», vuole ripensarlo, la bella sintesi di Vincenzo Ferrone, Il mondo dell’Illuminismo Storia di una rivoluzione culturale (Einaudi «PBE Storia», pp. XIV-240, con 19 immagini, € 23,00), che si inserisce nel vivace dibattito attuale di studi settecenteschi, fortemente segnato, per fare solo alcuni nomi, dalle opere di Robert Darnton, Paolo Casini, Margaret C. Jacob, Jonathan Israel, Gianni Paganini, Benedetta Craveri. Una parte importante del volume è dedicata agli aspetti costituzionali, alla lotta per l’emancipazione, alla pratica delle riforme – temi che Ferrone aveva già affrontato in un saggio su Gaetano Filangieri (Laterza, 2003) e nella Storia dei diritti dell’uomo (Laterza, 2014) – in sintonia con le ricerche di grandi studiosi come Norberto Bobbio e Franco Venturi, di cui ricorda di aver seguito i corsi all’Università di Torino, dove ora insegna. Sono in primo piano il patriarca Voltaire, ma anche, raccogliendo gli insegnamenti di giuristi, astronomi, matematici, biologi, i nuovi filosofi: Diderot, Rousseau, Herder, Condorcet. Diderot, che con la grande impresa dell’Encyclopédie orienta in modo rivoluzionario il mondo delle conoscenze, delle arti e dei mestieri, che, insieme a Raynal, si batte contro il colonialismo e la schiavitù, invocando l’apparizione di uno Spartacus nero. Una testimonianza agghiacciante, per noi che oggi assistiamo al dramma dei migranti, è il quadro riportato a p. 147, la Slave Ship (1840) di Turner: nel timore di essere intercercettato, il comandante della nave getta fuoribordo il suo carico di esseri umani. Rousseau, che contro tutte le ricostruzioni dei secoli precedenti, fondate su «principi metafisici», invita a studiare con rigore scientifico e insieme con forza visionaria la specie umana nel suo «stato primitivo», in quell’età lontanissima e senza tempo dove è possibile cogliere l’uomo «tal quale ha dovuto essere nella natura»: una coraggiosa denuncia politica contro l’immagine scintillante di una civiltà moderna segnata da contraddizioni, ingiustizie, violenze, dolorosamente incapace di conciliare la ricchezza dei moderni con la virtù degli antichi. Herder, che raccoglie appassionatamente le poesie di tutti i popoli, che con Le idee per la filosofia della storia dell’umanità coltiva il sogno di fare una «carta antropologica della terra» che riveli l’unicità del genere umano. «Un tale sogno però – ammette amaramente – è ancora lontano dal poter essere realizzato perché nei secoli si è percorsa la terra con la spada e la croce, con i cavalli e l’acquavite, piuttosto che con il pennello per ritrarre le diverse forme di umanità incontrate». Condorcet, che con l’Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain colloca audacemente i diritti dell’uomo tra la storia e l’utopia, facendone un formidabile mito politico. «Incredibilmente, proprio mentre il populismo giacobino e il terrore infuriavano intorno a lui accompagnando sinistramente la sua tragica fine in carcere a Bourg-la-Reine, lo scienziato Condorcet, l’ultimo dei grandi philosophes, nel marzo del 1794, pensava all’avvenire con serena fiducia: apriva, con incredibile tenacia e generosità, il suo cuore alla speranza di un futuro migliore per l’umanità intera».
Uno dei punti fermi dell’interpretazione dell’Illuminismo è da sempre, giustamente e comprensibilmemte, l’insistenza sul ruolo della ragione e della scienza. Ma, si chiede Ferrone: «Davvero il programma epistemologico dei philosophes pensava di rovesciare l’immaginazione con la scienza? Di quale ragione e soprattutto di quale scienza stiamo parlando?». Ora, per la scienza, non dobbiamo pensare soltanto alla forte presenza del metodo geometrico-deduttivo di Descartes, di Galileo, di Newton, ma anche alle nuove conoscenze umane in campo medico e biologico: per Toland, per Buffon, per Diderot la natura è come un animale grande e mutevole, un composto di materia vivente, di molecole organiche ricche di energia. Il grande medico Théophile Bordeau, amico di Diderot e protagonista del suo Rêve de d’Alembert, sostenitore dell’empirismo sperimentale e insieme aperto al magnetismo e al demone dell’immaginazione, contrappone all’«homme machine» l’«homme sensible». E nel celebre articolo Genie dell’Encyclopédie Diderot, sovvertendo le consuete gerarchie, nel definire le stessa natura umana attribuisce una funzione straordinaria, rispetto al primato della ragione e della memoria, alla «forza dell’immaginazione». È infatti proprio la potenza immensa dell’immaginazione che consente di avvicinarsi alla verità, aprendo strade sconosciute nello studio dell’uomo, fantasticando mondi inesplorati e isole felici – la Tahiti di Bougainville – rompendo le convenzioni politiche e morali della tradizione, e anche i canoni estetici dominanti. Non sorprende allora che Ferrone dedichi un intero, intenso capitolo all’Illuminismo e all’arte dei modermi.
Con Diderot e Lessing, in particolare, si definisce il fondamentale passaggio dalla figura del «teorico d’arte» alla nuova e illuministica figura del «critico d’arte», creato per la prima volta proprio dai philosophes nel loro sforzo di portare in ogni campo i principi della filosofia dando vita in tal modo anche in campo artistico al moderno regno della critica. Tutti e due sono fortemente polemici nei confronti del classicista Johann Joachim Winckelmann, che vede nella quieta grandezza delle statue greche il punto più alto mai raggiunto dall’umanità nell’arte. A lui rispondono che gli antichi vanno studiati e non imitati: «È che i modelli, i grandi modelli che sono tanto utili agli uomini mediocri, nuocciono assai agli uomini di genio». Tra la lessinghiana Hamburgische Dramaturgie e i Salons di Diderot c’è una profonda e significativa corrispondenza: tutte e due le opere sono volutamente frammentarie e «occasionali», nascono infatti dalla riflessione sulle opere viste volta a volta a teatro o in una mostra. Verrebbe da dire, parafrasando una celebre opera di Benjamin, che con loro «si consolida pienamente la stagione dell’opera d’arte “nell’epoca dell’opinione pubblica”, il nuovo e potente tribunale dell’estetica dei moderni». Il mondo dell’Illuminismo non è soltanto la strenua lotta per i diritti e le riforme, ma anche una grande rivoluzione culturale. «Grazie alle opere di Goya, David, Mozart, Alfieri, Diderot, Lessing, Goethe, l’eredità di quel mondo ha infatti continuato e continua a persistere e a inquietare le coscienze sino ai nostri giorni».