Che i 20 leader mondiali ne stiano discutendo è certo. Ma da qui a credere che a Osaka saranno prese misure concrete per frenare il cambiamento climatico risulta difficile. Se non altro perché molte delle nazioni che oggi siedono nei banchi del summit hanno continuato a investire massicciamente sul carbone.

Solo nell’ultimo anno, secondo gli studi condotti dall’Overseas Development Institute, l’ammontare dei finanziamenti destinati a produzione, stoccaggio e consumo del carbone è quasi triplicato. Si è raggiunto quota 64 miliardi di dollari. Una cifra astronomica a cui partecipano tutti i big della terra. Il 79% delle emissioni di Co2 vengono prodotte proprio dai membri del G20 e in particolar modo dalla Cina, che malgrado le promesse di ridurre del 58% le emissioni dei suoi impianti (traguardo fissato per il 2020), resta la più grande fucina a carbone del pianeta. Seguono India e Giappone.

Un terzo posto scomodo per Tokyo, a fronte delle parole che lo scorso settembre il primo ministro Shinzo Abe aveva speso riguardo alla urgente necessità di avviare una lotta comune per evitare l’irreparabile disastro ambientale. «Dobbiamo passare velocemente dalle promesse ai fatti». Un monito largamente disatteso anche dal suo stesso governo. Non solo rispetto al consumo degli idrocarburi ma anche all’uso della plastica. Il Giappone è anche infatti, dopo gli Usa, il secondo produttore di rifiuti di questo genere.

Se però il tema decarbonizzazione dell’energia rischia di rimanere un tabù a Osaka, quello dell’inquinamento marino da residui plastici sarà centrale. Ma non produrrà nessun vincolo, secondo il Wwf, che denuncia come non sia stato fissato nessun obiettivo concreto, né tantomeno misure sanzionatorie per i trasgressori. «È sempre più chiaro che per risolvere questa crisi è necessario un forte trattato giuridico internazionale simile a quello del Protocollo di Montreal che ha permesso di combattere la formazione del buco dell’ozono».