Per un giorno il deserto del Naqab (Negev in ebraico) e le sue comunità beduine si ritrovano nelle piazze delle principali città del mondo. Nel «giorno della rabbia» contro il Piano Prawer, ieri, oltre 30 città di tutto il globo hanno manifestato contro l’espulsione e il trasferimento forzato di decine di migliaia di beduini palestinesi residenti in Negev, Sud dello Stato di Israele.

Roma, Torino, Seattle, Istanbul, Beirut, Berlino, Melbourne, Londra, tutti in piazza accanto alla Palestina: ieri manifestazioni si sono tenute in tutto il territorio, da Gaza a Ramallah, da Gerusalemme ad Haifa. La repressione delle forze militari israeliane non si è fatta attendere: dopo le minacce dei giorni scorsi contro attivisti, organizzazioni locali e internazionali e persino compagnie di bus, sono stati decine gli arrestati alle manifestazioni di ieri.

In Negev, epicentro della protesta, la polizia a cavallo ha caricato il migliaio di manifestanti presenti, lanciato gas lacrimogeni, bombe sonore e granate stordenti e tentato di disperdere la folla con cannonate d’acqua. Almeno una decina gli arrestati: «Una repressione senza precedenti», twittano alcuni attivisti presenti.

Duri scontri anche alle porte di Ramallah dove l’esercito ha aperto il fuoco contro la marcia di protesta: i manifestanti dal centro della città e dal campo profughi di Al Jarazone hanno marciato verso l’insediamento israeliano di Beit El. Tre gli arresti, tra cui il giornalista Ahmad Zeyata. Nel campo profughi di Shuafat, a Gerusalemme, la polizia ha stretto le manette ai polsi a tre minorenni, mentre in Città Vecchia la folla che tentava di dirigersi verso la Porta di Damasco è stata dispersa da agenti a cavallo. Bombe sonore e cavalli anche nella città costiera di Haifa, gas lacrimogeni nel campo profughi di Aida a Betlemme.

Ma nonostante la violenta repressione, i beduini del Negev sono stati in grado di accendere i riflettori delle opinioni pubbliche internazionali sulla minaccia che pende sulle loro comunità. Da Londra è giunta anche la lettera di solidarietà di 50 artisti, musicisti, registi e storici, da Ken Loach a Ilan Pappé, da Brian Eno e Peter Gabriel.

Il popolo palestinese, impegnato da mesi in diverse forme di resistenza all’implementazione del Piano Prawer, lo definisce una seconda Nakba, dopo quella del 1948 che vide le milizie sioniste espellere dalle proprie terre oltre 750mila palestinesi. Approvato in prima lettura dalla Knesset pochi mesi fa, il progetto redatto nel 2011 prevede l’espulsione di 40-70mila beduini palestinesi, la distruzione di 45 villaggi, la confisca di oltre 800mila dunam di terra (un dunam è pari a mille metri quadrati, ndr) e la conseguente “urbanizzazione” delle comunità in township costruite ad hoc dallo Stato israeliano.

Ma ieri non è stata solo una giornata di protesta contro un piano che in molti definiscono un atto di pulizia etnica contro comunità residenti nell’area da generazioni. È stato anche il giorno dei bambini di Gaza e delle loro mini arche, fatte salpare dal porto di Gaza City sfidando il duro blocco israeliano contro la Striscia.

La manifestazione, che ha visto 190 piccole imbarcazioni prendere il mare con a bordo i messaggi di speranza dei bambini gazawi, è parte della campagna «Gaza’s Ark» della coalizione internazionale Freedom Flotilla. Obiettivo dell’Arca di Gaza sarà quello di rompere dall’interno il blocco navale imposto dalle autorità israeliane: dalla Striscia partiranno barche con a bordo attivisti e beni prodotti a Gaza – datteri, legno, spezie. Salperanno verso i mercati europei e arabi, alla ricerca di accordi commerciali veri e propri che possano (almeno simbolicamente) ricostruire un’economia locale ormai allo stremo.

A causa del blocco israeliano e delle nuove dure restrizioni imposte dal governo egiziano, figlio del golpe militare del 3 luglio, Gaza sta vivendo una delle sue peggiori crisi umanitarie e ambientali: la mancanza di elettricità blocca drammaticamente l’attività di ospedali, scuole e impianti di depurazione delle acque reflue. A Gaza City, quartieri come quello di Zeytoun sono ormai invasi da fango e scarichi fognari. Il timore dello scoppio di epidemie è sempre più concreto e ci si chiede quanto Gaza possa resistere.