Gli adolescenti appartengono alle categorie più colpite sul piano psicologico dalla pandemia. Hanno manifestato disagio in vari modi: aumento dell’introversione, della tendenza all’isolamento e della dipendenza dal digitale, depressione, instabilità emotiva, attacchi di ansia acuta, fortissima insofferenza alle restrizioni e difficoltà conseguente a mantenere un livello appropriato di prudenza, calo della fiducia nei confronti dei genitori e delle istituzioni statali. Si parla anche di un aumento dei suicidi del 5% circa (un dato contrastato), ma la tendenza era in atto da prima. La pandemia ha trovato gli adolescenti già in condizioni precarie (il mondo non andava in una direzione favorevole a loro).

A questi sintomi evidenti di malessere sono arrivati da parte del consorzio bio-medico/comportamentista spiegazioni fantasiose, sorprendenti per il loro conformismo opprimente: gli adolescenti soffrono a causa di malattie genetiche, del venire meno della “capsula protettiva della famiglia”, dell’interruzione della “routine della scuola” che organizzava la loro vita.

Più si mette la censura interpretativa sul disagio psichico evidente, più sparisce dall’attenzione il disagio silenzioso, latente e le sue conseguenze future. Gli effetti del distanziamento e delle restrizioni sono molto diversi per gli adolescenti rispetto agli adulti. Le persone in età adulta possono affrontare la deprivazione sulla base dell’esperienza già conosciuta, vissuta, sospendere il suo dispiegamento soddisfacente in attesa di una ragionevole via d’uscita. Possono, almeno in parte, elaborare la perdita di quel prima della tempesta in cui avevano investito e rappresentarsi il ritrovamento nel futuro, in forme e prospettive nuove, di ciò che è stato perduto. Gli adolescenti sono nel periodo cruciale di transizione dall’infanzia alla vita adulta, da un sistema di rappresentazione della realtà a un altro molto diverso. Si trovano con un corpo sessuato che non sanno ancora gestire, alle prese con il mistero erotico del corpo dell’altro sesso che li affascina, ma fa anche paura.

Vivono la scuola come autorità oppressiva, ma anche come spazio di pensiero che li emancipa dalle idee dei genitori e come luogo di una loro organizzazione contestatrice, di ribellione ai luoghi comuni della vita. La pandemia li ha colpiti in un momento formativo, quando si sa ciò che si lascia ma non si sa ciò che si trova, e ha imposto loro il lutto di una fase di transizione che è già un periodo di lutto nei confronti della loro infanzia, la fase precedente.  Il più importante strumento di elaborazione di lutto degli adolescenti, stretti tra due diverse logiche di vita, di cui quella adulta bisogna costruirla, è l’incoerenza che usano come sperimentazione. Niente è più alieno alla loro esperienza della necessità coercitiva e ordinatrice che vivono come insopportabile prevaricazione.

Per gli adolescenti ribellarsi alle restrizioni, piuttosto che interiorizzarle, è giusto. La ribellione può prendere forme che non piacciono a noi adulti. Tuttavia se queste forme ci appaiono imprudenti, controproducenti, ciò significa solo che non riusciamo in partenza a cogliere in senso della ribellione, a riaccogliere sua la sfida, riconoscerla. È un mondo fragile il nostro che non sa reggere il confronto. Gli adolescenti lo percepiscono, temono di destabilizzarlo e si sentono in colpa. Vogliamo che crescano responsabili, ma li facciamo, invece, sentire colpevoli. Essi vogliono vivere in un mondo affidabile per poter essere incoerenti, liberi nelle loro esplorazioni. Ė il loro modo di sospendere la linearità dell’agire, sviluppandolo su più fronti in modo contraddittorio.

Quando sentono che contestarci ci mette in crisi, agiscono in modo apparentemente non costruttivo, ma in realtà si astengono. Non fanno ciò che vogliamo, non fanno ciò che vogliono. Diventano il sintomo della nostra inerzia.