«Abbiamo in linea Yasser. Buongiorno, da dove ci chiami?». «Da Beit Hanoun, manca l’acqua in molte delle case della mia zona. Dateci una mano, non sappiamo a chi rivolgerci». «Ci proviamo Yasser, abbiamo preso nota della tua situazione. Il prossimo è Nabil, buongiorno cosa vuoi segnalarci?…». Va avanti così su Shaab Radio, dal 21 maggio, dall’inizio del cessate il fuoco tra Hamas e Israele. Mohammed al Awni, nel suo programma «Ogni giorno a Gaza» cerca di dare voce a chi segnala situazioni di emergenza e servizi essenziali interrotti a causa dei raid aerei israeliani. «Spesso ci limitiamo a scambiare qualche parola con i nostri ascoltatori» ci dice Al Awdi «sono persone esauste, distrutte dalla perdita di un padre, di un figlio, spesso piccolo, o disperate perché hanno avuto la casa distrutta o danneggiata dai bombardamenti. Noi proviamo ad incoraggiarle». Nata nel 2006, emittente di sinistra, con una consistente presenza di giornaliste nella sua redazione, Shaab Radio si è conquistata la fiducia di molti a Gaza per la sua informazione indipendente anche se fa riferimento a un partito, il Fronte popolare. Mentre ci aggiriamo per gli studi e rivolgiamo domande ai redattori su come hanno vissuto e lavorato durante gli 11 giorni di attacchi su Gaza, Mohammed al Awdi riferisce in diretta del 254esimo palestinese ucciso dall’offensiva aerea: Ahmad Ammar, 32 anni, spirato in ospedale dopo giorni di coma

[object Object]

profondo. Negli ospedali altri feriti restano in gravi condizioni. I medici dell’ospedale Al Shifa, il più attrezzato di Gaza, parlano di danni permanenti per persone, spesso giovanissime, che resteranno disabili per il resto dei loro giorni. E che i civili di questo fazzoletto di terra abbiano pagato l’ennesimo grave tributo di sangue lo ha sottolineato ieri anche il quotidiano israeliano Haaretz che sulla sua prima pagina ha pubblicato le foto dei 67 bambini e ragazzi palestinesi uccisi dalle bombe, con il titolo «Questo è il prezzo della guerra». Una scelta coraggiosa, contestata da tanti, in un paese dove l’opinione pubblica, in buona parte, avrebbe voluto continuare i bombardamenti su Gaza.

C’è molto traffico anche oggi nel centro di Gaza city. L’interruzione di alcune arterie principali, come via Wahde, colpite da bombe – Israele parla di attacchi volti a distruggere la rete di gallerie sotterranee di Hamas – hanno aggravato gli ingorghi nel centro della città. Passiamo accanto al Juhwara, un edificio alto 12 piani, centrato da missili alla sua base. È pericolante, le autorità comunali forse lo abbatteranno ma si tratta di una operazione complessa e costosa. In attesa di una decisione, alcuni inquilini,

[object Object]

incuranti dei divieti, sono rientrati nei loro appartamenti per recuperare quante più cose possibili: un po’ di contante, qualche oggetto d’oro, ricordi di famiglia, abiti. Qualcuno ha portato già le poltrone del suo ufficio e in cuor suo non sa se riuscirà ad aprirne un altro. Davanti alle macerie di un altro palazzo raso al suolo dagli aerei israeliani, il Jalaa, dove avevano gli studi la tv al Jazeera e l’agenzia Ap, i giornalisti di Gaza tengono un raduno di protesta contro gli attacchi subiti dai mezzi d’informazione.  Almeno 33 ci spiega uno di loro, mostrandoci un poster con il volto sorridente di Yusef Abu Hussein. Tra le voci più note di Radio Al Aqsa, Abu Hussein è ucciso da una bomba caduta davanti alla sua abitazione a Sheikh Radwan.

Imbocchiamo la Salah Edin, la superstrada malandata ma alberata, che attraversa Gaza da nord a sud. All’altezza di Deir al Balah svoltiamo a destra per la centrale elettrica. All’ombra delle ciminiere, l’ingegnere Mohammed Thabet, sconsolato, ci dice che «attende invano da ore» la conferma dell’ingresso a Gaza del gasolio industriale necessario per tenere in funzione la centrale. «A causa della scarsità del carburante la produzione è limitata all’impiego di due delle quattro turbine, quindi ad appena 40-50 dei 120 megawatt che la centrale può generare» spiega «se non arriveranno i rifornimenti saremo costretti a ridurre ulteriormente la produzione di corrente. E sarebbe un altro disastro, già ora la popolazione ha solo 3-4 ore di elettricità al giorno e senza la corrente non possono funzionare tante cose, a cominciare dai depuratori delle acque nere». I palestinesi di Gaza, grazie alle donazioni del Qatar, comprano da Israele 120 megawatt – ma in questi giorni la fornitura è scesa a 70, dice l’ingegnere Thabet – ma non hanno fondi sufficienti per arrivare almeno alla metà di quei 450-500 megawatt che rappresentano il sogno dell’elettricità a Gaza 24 ore su 24.

Immancabilmente, al termine di una offensiva militare israeliana, si parla di ricostruzione e di sviluppo delle infrastrutture civili a favore degli oltre due milioni di abitanti di Gaza. Parole che si scontrano con i veti espressi da più parti. Israele condiziona, almeno così scriveva ieri Yediot Ahronot, l’ingresso dei materiali necessari per riparare i danni causati dai suoi bombardamenti alla restituzione da parte di Hamas dei corpi dei soldati Hadar Goldin e Oron Shaul, caduti in combattimento nel 2014, e alla liberazione di due civili: Avera Mengistu e l’arabo israeliano Hisham a-Sayed, prigionieri a Gaza del movimento islamico. Che sia vero oppure no si capirà nei prossimi giorni ma si stanno rivivendo, sette anni dopo, le stesse situazioni che seguirono l’offensiva Margine Protettivo. La ricostruzione avvenne solo in parte. E solo rattoppi saranno anche questa volta, in attesa della prossima guerra.