All’incrocio tra viale XX Settembre e viale Vittorio Veneto, salendo verso piazza del Popolo, c’è sempre qualcuno che si ferma dove Emmanuel è stato ucciso. Ieri sera lì si è fermata a rendere omaggio un’intera comunità, quella della Fermo democratica e antirazzista per una iniziativa voluta da Cgil-Cisl-Uil locali. Nella giornata di lutto cittadino proclamata dal sindaco Marco Calcinaro centinaia di persone sono accorse da tutte le Marche per stringersi attorno a Chimiary e a tutti quei ragazzi che hanno trovato rifugio a Fermo, contro ogni forma di odio e di discriminazione.

Cartelli, striscioni, mazzi di fiori, nastri rossi, sullo sfondo la valle dell’Ete, il tramonto sui Sibillini e le colline che scendono verso l’Adriatico. Un giorno di luglio la città di Fermo si è svegliata diversa da come ricordava di essere: «Io ancora non ci posso credere», dice una signora di una certa età ferma a guardare il luogo di un omicidio razzista che ha spaccato una comunità che si credeva unita.

Dopo la marcia verso viale Veneto, la kermesse di piazza con musica e interventi.

Mercoledì scorso, il giorno dopo l’omicidio di Emmanuel Chidi Namdi ad opera di Amedeo Mancini, don Vinicio Albanesi aveva organizzato una veglia di preghiera per cercare di tenere uniti tutti, di coinvolgere e di non escludere nessuno da una ricognizione del dolore quantomai necessaria: il timore era che si venisse a creare un clima da notte del giudizio, quando alla violenza si risponde con altrettanta violenza. Non è stato così – per fortuna -, ma, conclude un ragazzo seduto al tavolino di un bar sulla piazza, «a parti invertite sarebbe successo un macello e questi sarebbero dovuti scappare». Possibile, probabile. La tensione in città, comunque, si avverte densa nell’aria e sui muri: qualcuno nella notte ha strappato i manifesti funebri di Emmanuel.

Un fatto del genere, dicono, sarebbe potuto succedere in qualsiasi parte d’Italia, non è che Fermo sia un posto più razzista di altri. Non particolarmente, almeno.

È la provincia: sorridente quando c’è qualcosa per cui valga la pena vantarsi, cinica e spietata quando ne viene messa in dubbio la (presunta) natura placida e tranquillizzante. Le due facce di una realtà periferica che trova ogni soluzione in se stessa e che si scopre debole e spaurita quando irrompe una realtà che è sempre esistita ma che magari non si fa vedere, che cova sotto la cenere e che a un certo punto divampa e travolge tutti. Il mondo, là fuori, va avanti, succedono tante cose e le conseguenze prima o poi si fanno sentire ovunque, anche qui. Con gli sbarchi estivi dei migranti, le associazioni umanitarie si mettono in moto e le Prefetture smistano uomini e donne qua e là per l’Italia. Sulle prime non se ne accorge nessuno, poi via via la faccenda viene vissuta con fastidio crescente.

Le indagini, intanto, vanno avanti: lo scontro vero tra procura e difesa si consumerà sulla ricostruzione dei fatti. Omicidio preterintenzionale per gli investigatori, legittima difesa per l’avvocato Francesco De Minicis: dato per certo l’insulto razzista – «scimmia africana» ha detto l’uomo rivolto a Chimiary, la moglie della vittima – resta da capire chi per prima avrebbe preso il cartello stradale utilizzato come clava e se sia vero o no che l’ultimo colpo alla nuca il nigeriano l’abbia preso quando era ormai di spalle, a rissa ormai finita.

Mancini, intanto, resta nel carcere di Ascoli Piceno. L’ordinanza scritta dal Gip dopo l’interrogatorio di lunedì mattina è gelida come sempre, ma anche chirurgica nella sua descrizione: «Ci troviamo di fronte a un soggetto che non ha i necessari freni inibitori per evitare, seppur provocato, gravi delitti contro la persona.

È condivisibile e altamente probabile che si presenterà l’occasione di molestare o aggredire altri soggetti extracomunitari vista la massiccia presenza nella provincia e a Fermo». E ancora, l’aggressore viene definito come una personalità «violenta, aggressiva, prevaricatrice, insofferente ai dettami della legge». Amedeo Mancini era molto vicino a Casapound: la circostanza, in un primo momento negata, è invece confermata sia dalla maglietta degli Zetazeroalfa (il gruppo ‘ufficiale’ del movimento) indossata al momento dell’omicidio, sia da diverse foto che continuano a girare sui social network nelle quale si vede, inconfondibile, il suo volto ai banchetti del Blocco Studentesco e a diverse manifestazioni di stampo neofascista. E alla fine di tutta la storia proprio questo resta: un africano ucciso da un fascista; al netto di quello che succederà nelle aule dei palazzi di giustizia, negare la natura razzista del gesto a questo punto è impossibile.