La voce di Selahattin Demirtas (o meglio, i suoi tweet) era ricomparsa venerdì: annunciava il prolungamento della detenzione in carcere per lui e la ex co-leader dell’Hdp Figen Yüksekdag. Entrambi arrestati il 4 novembre 2016, sono stati accusati di ogni possibile reato, dagli insulti alla presidenza all’appartenenza a organizzazione terroristica: Demirtas rischia 142 anni di prigione, Yüksekdag 82.

L’ex co-presidente del Partito democratico dei popoli, tuttora sua guida politica, avrebbe dovuto essere rilasciato: una corte di Ankara, il 2 settembre scorso, ne aveva ordinato la scarcerazione in attesa dei vari processi che lo attendono.

Ma la magistratura turca – «erdoganizzata» al massimo dopo la campagna di epurazioni post-golpe 2016 – ha bloccato tutto: un’altra corte ha ordinato il ri-arresto, con tanto di emissione di mandati d’arresto, di Demirtas e Yüksekdag per «terrorismo», in riferimento alle proteste scoppiate nel sud est a maggioranza curda del 2014.

E ieri è arrivata la benedizione del presidente Erdogan che in un discorso pubblico si è scagliato, con toni molto poco sibillini, contro il rilascio di quelli che ritiene responsabili delle proteste. I curdi le pagarono con il sangue e la violentissima campagna militare di Ankara: migliaia di morti e feriti, mezzo milione di sfollati, intere città distrutte.