gli ultimi anni e il conto salato pagato dalla collettività per porvi rimedio non hanno insegnato nulla. Stiamo parlando dei nostri fiumi e della loro mala gestione, specie nelle zone urbane, del rischio idrogeologico pronto a scatenarsi in tutta la sua drammaticità ogni qual volta si verifichi un evento estremo e dell’inquinamento delle acque.

È sotto gli occhi di tutti l’urgenza di costruire una strategia che possa mettere in sicurezza i corsi d’acqua italiani partendo dalla «natura». Serve Un futuro per i nostri fiumi, come afferma il Wwf che proprio oggi presenta il dossier Liberiamo i fiumi – rigeneriamo le città e i territori e lancia la campagna #LiberiAmoifiumi che prevede eventi, iniziative, attività per liberare i corsi d’acqua dagli sbarramenti e altri ostacoli che ne snaturano l’habitat.
Un futuro è negato ai nostri fiumi, stando a quanto riporta il Wwf, se solo il 43% dei fiumi è in un «buono stato ecologico», come richiesto nella Direttiva Quadro

Acque. Ciò lo dimostra la costante perdita di biodiversità. Il 40% degli habitat e delle specie acquatiche hanno uno stato di conservazione inadeguato, solo il 29% è favorevole mentre il restante è in cattivo stato o sconosciuto.

La specie simbolo, la lontra, sebbene sia aumentata rispetto agli anni ’70, passando da 100 a 600-800 esemplari in tutta Italia, è ancora vicina alla «casella» estinzione. Ventinove specie di pesci di acqua dolce, dallo storione alla trota macrostigma, hanno bisogno di essere tutelate con azioni più severe. E poi, i corsi d’acqua sono in gran parte «canalizzati», sbarrati da dighe e altri ostacoli che ne hanno interrotto la continuità. Molti centri abitati non hanno ancora sistemi di depurazione e fognari adeguati e per questo la Commissione Europea ha avviato diverse procedure d’infrazione.

A tutto ciò dobbiamo aggiungere la piaga del consumo di suolo lungo le sponde fluviali che tocca l’intero Paese con un picco significativo nell’ultimo decennio, proprio quando gli ammonimenti del rischio idrogeologico, reso ancora più temibile dai cambiamenti climatici, avrebbero dovuto spingerci a riconsiderare le politiche di gestione del territorio. Negli ultimi 50 anni negli ambiti fluviali, attraverso le varie forme di urbanizzazione, si è consumato suolo per circa 2.000 chilometri quadrati, qualcosa come circa 310 mila campi da calcio. Eppure in questo arco di tempo non sono servite da lezione nessuna delle tante tragedie che hanno segnato la storia del territorio italiano.

Dal dossier del Wwf appare chiaro come i fiumi siano una cartina di tornasole della piaga del consumo di suolo e che la mancanza di un’efficace pianificazione ha consentito ai quasi 8 mila comuni italiani di svilupparsi spesso in modo autonomo, rispetto al contesto territoriale a cui appartengono, esponendo i propri cittadini a una serie di rischi assolutamente non trascurabili. Solo in Liguria, riporta il Wwf, quasi un quarto del suolo (23,8%) costruito entro la fascia di 150 metri dagli alvei fluviali, è stato occupato tra il 2012 e il 2015. Si è costruito non solo a ridosso, ma dentro gli alvei.

Il dossier, stando ai dati Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), riporta che solo nei tre anni prima del 2016 le regioni hanno continuato drammaticamente a consumare il suolo nelle aree di espansione dei fiumi, portando cemento e infrastrutture dentro la fascia dei 150 metri: il Trentino Alto Adige ha incrementato del 12% il consumo nelle fasce fluviali, il Piemonte del 9%, l’Emilia Romagna dell’8,2%, la Lombardia dell’8% e la Toscana del 7,2%. Tutto ciò vuol dire che vi sono oltre 7,7 milioni di italiani a rischio alluvioni.

Stando questa drammatica situazione, quali sono le possibili soluzioni? Il dossier del Wwf ne offre più di una basate sul recupero delle funzioni ecologiche del territorio partendo da alcuni casi di città europee, ma anche italiane, che potrebbero essere riproposte, come la riqualificazione fluviale operate sui fiumi Isar a Monaco o il Ravensbourne di Londra o il Rio Mareta a Vipiteno (Bolzano).

È poi indispensabile la rinaturazione per favorire il sempre più urgente adattamento ai cambiamenti climatici, ma è anche conveniente. Secondo alcuni studi, fa sapere il Wwf, l’industria della rinaturazione avrebbe degli effetti occupazionali che vanno da 10,4 a 39,7 posti di lavoro per 1 milione di dollari investiti, mentre con l’industria petrolifera e del gas ne supporta circa 5,3 posti per 1 milione di dollari investiti.