Di Ciro ho conosciuto per prima cosa la passione per la ricerca delle copie dei film. Era la seconda metà degli anni ‘70, l’epoca dei club-cinema, lui all’Officina, io al Movie Club, quando l’unico modo per poter vedere i film era di andare a cercarseli. Non c’era stato Langlois in Italia, né Ledoux. In compenso ci potevano aiutare amici più anziani, Fred Jungk (da cui Ciro ebbe i tagli di Arkadin),o Piero Tortolina, nostro comune maestro, o Angelo Humouda, con la sua utopia «civile» griffithiana. Erano anni di attivismo libertario e di cinefilia avventurosa, in un’atmosfera magari non «politica» in senso stretto ma sicuramente molto radicale, in cui si cercava da perfetti outsiders di «contare sulle proprie forze» nell’organizzare le sale e le proiezioni.
La prima magnifica ossessione di Ciro è stata trovare ciò che era invisibile, cioè quasi tutto; la seconda mostrare quello che si è trovato ad altri che siano in grado di capirlo e di apprezzarlo, un’azione anche militante; la terza il piacere personale della visione,all’origine legata all’esperienza della sala. É cresciuta e maturata così una generazione di conoscitori del cinema fuori delle regole e del conformismo della critica ufficiale (anche in seguito almeno alcuni non si sarebbero mai riconosciuti nell’establishment delle istituzioni), che trovò proprio nel convegno «Da Club a Club» organizzato dall’Officina a Roma nel 1984 un suo momento di discussione collettiva.
Lavorandoci insieme in televisione in una sorta di enclave parallela e quasi ironicamente clandestina mi è sembrato di capire che per lui il gesto di toccare fosse altrettanto importante e intenso di quello di guardare. Per Ciro la mano che sente al tatto è altrettanto importante dell’occhio che vede. Due organi sensibili che lavorano insieme nella sua mente. Sapeva proiettare il 35 e il 16, sapeva manovrare un tavolo di montaggio Rai. Arrivare al contatto con il materiale era già il modo concreto non solo di appropriarsene ma di capirlo, molto di più che la possibilità di disseppellirlo e farlo emergere dall’anonimato o dall’oscurità di qualche scantinato cui era stato condannato. Solo di lì può cominciare lo studio e la conoscenza.

cirogiorgini

Materiali dovrebbe essere considerata una bellissima parola e risuonare ancor più affascinante (se non ormai esoterica) nel mondo del digitale. I supporti, le bobine di ogni formato, seppur fragili, sono come le pietre, quand’anche senza nome e senza titolo, parlano. E Ciro sapeva ascoltarle e farcele ascoltare. Di qui la sua passione (condivisa soprattutto con Enrico Ghezzi) per il confronto delle copie e delle versioni, per le rushes, per la sequenza tagliata, il frammento disperso, il fotogramma fantasma che riappare, la scheggia che si intaglia al montaggio: non «objets trouvés» ma il più delle volte «objets cherchés» con foga ed ostinazione. Di qui la sua storia del tutto personale e stupendamente maniacale con le rushes e gli inediti di Welles, ma anche il recupero di ore e ore di materiale dall’archivio Rai, di cui lui fu uno dei più infaticabili esploratori molto prima che la parola teca significasse per l’azienda qualcosa di più di un magazzino.

Grazie anche a questa curiosità si devono a lui molti dei più bei montaggi di Fuori Orario. A differenza di noi (di me sicuramente) era dotato anche di un savoir faire pratico, un’agilità fisica, una conoscenza tecnica, una velocità e sicurezza nell’esecuzione da cui ho potuto imparare qualcosa senza peraltro riuscire a mia volta a impadronirmene completamente. Al tavolo di montaggio era signore del proprio reame, grazie anche alla complicità raggiunta con il bravissimo Dario Cece (il nostro montatore, una persona che davvero non si può non nominare parlando del lavoro di Ciro in Rai).

All’inizio noi torinesi Ciro l’avevamo visto come un «passatore» che portava personalmente in aereo in Italia copie in 35 e 16 mm. aggirando le dogane che in quei tempi ci facevano impazzire. In seguito scoprii che, fiero e geloso dei risultati delle sue fatiche, poteva anche tenere una copia 35 mm. della seconda versione di L’uomo che sapeva troppo di Hitchcock (per anni invisibile) nascosta sotto il letto o una sequenza inedita di Welles sempre in 35 mm. nel cofano della propria auto, luoghi a suo dire da considerare «sicuri» (e non mancavano certo le ragioni alla sua diffidenza non disgiunta di ironia!).
Ma questa diffidenza era solo l’altra faccia della generosità, Ciro voleva essere sicuro di donare a persone che lo meritassero e di cui potersi fidare.

Capii che quando si metteva in testa qualcosa non mollava più la presa, che la tenacia era uno dei punti forti del suo carattere, con cui fronteggiava anche situazioni impervie od ostili. Recentemente – lui che rivedeva soprattutto i film classici – aveva amato molto Cut di Naderi: nel suo indomito lottatore probabilmente aveva riconosciuto qualcosa della propria storia. Montagne di ore realizzate e trasmesse su Rai 3 nei diversi programmi di Enrico ora sono lì, hanno il valore di una lezione, anche politica, sono l’esempio di una radicale dimostrazione di cosa si potrebbe fare con la televisione in una concreta utopia rosselliniana.

Sia che siano dedicate a Ford, a Welles, a Hitchcock, alla RKO o al «cinema sul fondo» italiano (ma anche a Branca, Andreassi, Piccon…), sia che siano composte con i materiali più anonimi od «oggettivi» (eveline, vent’anni prima dall’archivio Rai), vi è impressa con forza la visione critica molto salda e testarda di un uomo che seppe praticare con commovente, impetuosa sensibilità e intelligenza l’arte della programmazione e del montaggio. Davvero Ciro ci hai lasciato troppo presto per proseguire altrove le tue visioni e i tuoi sogni.