Nel centro di Donetsk, su un piedistallo di marmo, sorge una grande statua di Lenin. Ci sono anche tante bandiere rosse, a Donetsk, come quelle che si sono viste sventolare negli scorsi giorni sui carrarmati in corsa verso ovest.

Quando sono andato per la prima volta in Donbass, nel 2014, speravo di poter raccontare una nuova guerra di Spagna. Mi ero lasciato illudere da tutte quelle bandiere (anche se veder sventolare una bandiera rossa su un tank invasore un po’ dovrebbe far riflettere), dagli slogan antifascisti e dal “No pasaran!” scritto a caratteri cubitali sulla “Doma administratsiya” di Donetsk.

Ma poi avevo visto anche altre cose. C’erano le bandiere zariste, quelle putiniane, e c’erano i centinaia di volontari di estrema destra che erano venuti a combattere sotto quelle insegne.

Ho poi capito che l’antifascismo, a Donetsk, è ben diverso dal nostro. L’antifascismo, per i russi, è l’Armata patriottica di Stalin che respinge l’invasore tedesco (deriva da qui il concetto di “denazificazione” utilizzato da Putin, che non significa la sconfitta del nazismo come ideologia reazionaria, ma più genericamente la sconfitta dei nemici della Russia).

LA BANDIERA ROSSA simboleggia il potere imperiale sovietico, che aveva barattato l’uguaglianza col sogno di dominare il mondo. Perciò la falce e martello, a Donetsk, non era poi così in antitesi con i ritratti di Nicola II e le tesi dei suprematisti russi – e accorgersene, stando lì, non era per nulla difficile.

Un giorno, dovendo trascorrere una mezza mattinata con un leader locale del Partito comunista del Donbass – e parlando io poche parole di russo e lui nessuna d’inglese – volli provare a fare un gioco. Gli elencai alcuni personaggi storici, chiedendogli di farmi capire chi gli piacesse e chi no. I nomi di Stalin e dell’ultimo zar furono accolti con un sonoro «karasciò». Più moderato fu l’entusiasmo per Mussolini – che in fondo li aveva invasi ma era pur sempre un nazionalista – mentre Lenin fu salutato con una mezza storta di naso. I più strapazzati furono Marx ed Engels, che il mio interlocutore bollò con un lapidario aggettivo – «Pederàst, finocchi». Ma in fondo è l’ironia delle parole, che una volta svuotate del concetto possono voler dire qualunque cosa.

Così le insegne bolsceviche – che nel 1917 simboleggiavano l’unione della classe operaia mondiale contro la guerra – oggi vengono fatte sventolare da giovani coscritti che ammazzano altri giovani coscritti in nome della patria e dei sacri confini. Nel 1956, quando i carri russi entrarono a Budapest, Ignazio Silone si indignò contro chi parlava dell’intervento delle «truppe sovietiche contro gli insorti ungheresi»: «Il rispetto della verità – scrisse – esigerebbe che si dicesse “le truppe imperialiste russe contro i soviet dell’Ungheria”». Ora è più o meno la stessa cosa, con l’unica differenza che non ci sono soviet né da una parte né dall’altra.

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Cosa nascondessero quelle belle bandiere rosse l’ho poi scoperto viaggiando nel Donbass.

Nella cittadina di Torez – così battezzata in onore di Maurice Thorez, già leader del Partito comunista francese – migliaia di minatori sono rimasti disoccupati in seguito alla guerra. Oggi molti di loro lavorano nelle Kopankas, vere e proprie miniere clandestine scavate a costo zero e nelle quali si è costretti a strisciare pancia a terra, mentre il martello pneumatico satura l’aria di polvere nera. Nel 2015 il salario era di settecento grivne a settimana, pari a poco più di trenta euro. Si lavorava sei giorni su sette, in condizioni di sfruttamento assoluto, e spesso si era pagati direttamente in sacchi di carbone. Il materiale così faticosamente estratto veniva poi venduto ai “nemici” di Kiev, e chi controllava il traffico – e ci guadagnava – erano il più delle volte gli stessi leader separatisti.

È grazie a business come questi che si è formata la nuova borghesia locale, la quale sfrutta e si ingrassa esattamente come quella filo-ucraina che l’ha preceduta – ma semplicemente lo fa sventolando un’altra bandiera.

QUANTO AI NEONAZISTI veri – quelli che si definiscono tali – ne ho conosciuti su entrambi i lati della barricata, e ricordo l’imbarazzo di due gruppuscoli di ultra-droitier francesi che un giorno avevano scoperto di combattere gli uni contro gli altri e si erano telefonati per cercare di capire il perché.

Che c’azzecca l’antifascismo in tutto questo? Nulla, evidentemente. È soltanto una parola, così come la statua di Lenin è soltanto una statua – che se potesse riprendere vita si vergognerebbe di stare dove sta.

Andrea Sceresini è coautore, insieme a Lorenzo Giroffi, di «Ucraina, la guerra che non c’era», appena uscito per Baldini e Castoldi.