Seguendo l’autostrada che da Eleusi porta ad Atene, si incontrano sulla sinistra, avendo sulla destra il mare, delle piccole colline e un laghetto. Qui sono morti, in uno scontro agli inizi della guerra fratricida di Peloponneso, i soldati ateniesi a cui Pericle ha reso onore nel suo celeberrimo Epitafios (orazione funebre) tramandatoci da Tucidide. «Degli uomini epifanòn (illustri) – disse Pericle, riferendosi ai caduti – tutta la terra è tomba».

Oggi stabilimenti petrolchimici deturpano il luogo di quella morte brillantemente celebrata. Sopravvive alla retorica l’idea dei morti non come ospiti di un pezzo ristretto di terra, ma come patrimonio umano.

«Epifanés», di cui «epifanón» è il genitivo al plurale, può essere usato estensivamente per indicare qualcosa «in vista», «illustre», ma più precisamente significa ciò «che viene alla luce», «che appare». Tra le sagome umane che si approssimano alla nostra vista e la nostra incapacità di farle venire alla luce del nostro campo visivo, si consuma la tragedia dei migranti. Affogano nella nostra indifferenza, che la messinscena di un dolore, il quale profondo e duraturo non è, non fa che esaltare.

L’insondabile opacità del mare, diventata concreta accoglienza cimiteriale, è la più eloquente metafora della nostra dignità, umanità perduta.

Un poeta greco del novecento, Nikos Kavvadias, considerato di «nicchia», ma di indubbia intensità, ha lavorato gran parte della sua vita come marinaio.

In una sua poesia recita:

«Resterò sempre ideale e immeritevole amante dei viaggi lontani e dei mari aperti azzurri
e morirò una sera, uguale a tutte le sere, senza attraversare la vaga linea degli orizzonti».

Parla di sé, di Ulisse che è in ognuno di noi, del navigatore che dopo il ritorno a Itaca riprende a remare per andare a morire in Gibilterra – una sera, uguale a tutte le sere-senza attraversare gli orizzonti.

Itaca, scrive Kavafis, «ti ha dato il bel viaggio». La vaga linea degli orizzonti, scrive dopo di lui Kavvadias, ti spinge ad anelare la vita oltre l’ostacolo, così terrificante quando ingannevole, della morte.

Vivere è respirare profondamente, godere dei profumi respirati, stare nel movimento e nel ritmo del corpo che li respira. Abitare la vita che fa del futuro un viaggio, che assapora la continuità e la discontinuità dell’esistenza. Della vita oltre la morte, del nirvana assoluto, la beatitudine come ultima meta agognata dell’esistenza (il ritorno al grembo materno), resteremo sempre amanti ideali e, per fortuna, immeritevoli. Possiamo meritarci, invece, il pieno vivere che alloggia al di qua della morte. Sentirsi vivi perfino nel momento in cui si muore.

La guerra, la distruzione della propria casa, gli stenti, la mancanza di libertà spingono all’esilio.

Non è la disperazione, tuttavia, bensì il coraggio, il desiderio di vivere, che spinge a sfidare il pericoli del viaggio, la morte.

I migranti non sono suicidi: attraversano le lunghe distese (che anche quando sono fatte di montagne sempre distese di mare sono) per apparire, venire alla luce. E se muoiono a causa della nostra cecità – di sera, nel buio dello sguardo – muoiono da vivi, con accesa la loro piccola fiamma di vita (che tuttavia fa più caldo dei nostri grandi fuochi di parole). Per necessaria simmetria di condicio, noi siamo morti da vivi.

Le infinite ragioni e le complesse spiegazioni del perché questo accade, un alibi, non ci fanno guarire.

Parafrasando Pericle: «Degli sconosciuti che cercano di venire alla luce, spostando lo sguardo dai loro piedi verso l’orizzonte lontano, tutto il mare, la memoria di un’umanità in viaggio, è tomba».