In apparenza con il tempismo di un instant film, in realtà con la maturità di una riflessione che dura ormai da 15 anni, in L’ordine delle cose il regista padovano Andrea Segre riprende il suo discorso sulle migrazioni che partono dalla Libia, con un film che va dritto allo scopo con lucidità cartesiana, senza semplificazioni riduttive o sentimentalismi di maniera, dimostrando che ciò di cui si sta discutendo, con acrimonia e machiavellici compromessi in questi giorni era nell’ordine delle cose.
In effetti «l’ordine delle cose» è l’ossessione di Corrado, funzionario del Viminale, che sposta oggetti, mobili e persino tappeti, perché corrispondano alla sua geometria mentale, ma colleziona bottigliette della sabbia delle varie spiagge che visita nei suoi controlli sulle migrazioni: un ricordo, una prova? Mandato in Libia per studiare modi e mezzi per bloccare i flussi, si scontra direttamente con le condizioni brutali dei luoghi in cui vengono detenuti i migranti in cerca di asilo. Tra essi una giovane donna somala che gli dà una scheda elettronica da portare a un parente in Italia, mettendo in crisi la sua lealtà istituzionale. Confrontandosi col collega francese e con le complesse dinamiche delle fazioni locali, Corrado si convince che per fermare la marea dei profughi non resta che «investire sulla Libia» o meglio «aiutarli in casa loro» ovvero pagare le autorità libiche, corrompendo la guardia costiera o viceversa i carcerieri, perché fermino i barconi alla partenza. Nello scegliere tra queste opzioni politico-tribali bisogna però evitare assolutamente di guardare negli occhi questi migranti, di arrivare a conoscerli in qualche modo, perché qualsiasi contatto, anche solo uno sguardo, lo sfiorarsi di una mano, potrebbe risvegliare la coscienza anche del funzionario più rigido.
In questo film, girato in Tunisia e Sicilia, Segre dimostra di aver raggiunto una maturità stilistica e narrativa che sposa il suo occhio acuto di documentarista a uno stile di racconto che non deve nulla alla televisione, alla vita in diretta, ma che sa comunque mantenere l’empatia e l’impegno che ha sempre profuso in ZaLab, attraverso il cosiddetto «documentario partecipato», che gli ha offerto le storie vere sulle quali costruire le vicende del film, senza cadere in falsi pietismi, riservando invece uno sguardo quasi compassionevole verso il suo rigido protagonista, interpretato da un ottimo Paolo Pierobon.