Giuseppe M. Gaudino è un filmmaker fra i più importanti in Italia, oggi, la cui produzione – ricca e variegata – ha spesso (di)mostrato capacità di sperimentazione poco consone nel panorama del cinema italiano contemporaneo. Autore di un film-culto come Giro di lune tra terra e mare, uno dei film italiani più importanti degli ultimi anni, torna quest’anno in concorso al Festival di Venezia con il nuovo film: Per amor vostro. Dal press book sappiamo che al centro dell’opera c’è Anna (interpretata da Valeria Golino), «donna «ignava», nella sua Napoli, che da vent’anni ha smesso di vedere quel che davvero accade nella sua famiglia, preferendo non prendere posizione, sospesa tra Bene e Male». Anna fa la «suggeritrice» in uno studio televisivo, sempre pronta a aiutare gli altri e sempre pronta a ridursi a «cosa da niente» per se stessa, «quando finalmente, dopo anni di precariato, riesce a ottenere un lavoro stabile», così che «inizia il suo affrancamento da questo stato»…
Da quanto letto, l’ignavia – parola da un forte rimando dantesco, infernale – sembra essere il tema dell’opera, o comunque uno dei temi principali di un’opera che sembra promettere di essere in continuità col cinema di Gaudino, un cinema – per chi non lo conoscesse – che tanto riprende la miglior lezione del neorealismo quanto insegue l’elaborazione di immaginari barocchi nella forma e sincretici nella struttura.
Ci racconti la genesi di Per amor vostro?
Il film come progetto nasce ufficialmente nel 2008, e vede oggi la luce. Diciamo che il tutto, quindi, nasce molti anni fa, perché ero interessato a raccontare la difficoltà di parlare, di relazionarsi e di usare un linguaggio in una figura femminile. Ho sempre cercato questa anima, questo spirito, questa emozione e col tempo l’abbiamo sicuramente «affinata». Però all’inizio è sempre stata Anna, cioè fin da subito c’era questa figura di suggeritrice che lavora in televisione. Sapevamo fin da subito che doveva essere la parola e la difficoltà di dar voce alla parola il problema di Anna, perché nella parola si condensa spesso il concetto di riscatto. Tu, parlando a te stessa, interiormente, usi un concetto verbale per dire delle cose, e la parola non adeguata, la parola non detta, era il tema centrale del racconto. E fare la suggeritrice era appunto mostrare colei che suggerisce per iscritto le parole giuste per questa rappresentazione. Era la cartina di tornasole per raccontare lo sforzo e i potenziali di una persona che avesse delle attitudini a capire chi era in difficoltà, in difficoltà con la parola. E mi interessava raccontare anche cosa significa non avere la parola giusta per se stessi. Poi su questo abbiamo lavorato – le co-sceneggiatrici e io – cercando di dare chiarezza. Abbiamo scritto moltissimo per poi mano a mano togliere. Essendo un racconto sull’emozione non è un racconto d’azione. Non è una storia linearissima e per arrivarci, a questa non-linearità – molto ricercata, molto voluta – ci abbiamo impiegato un tempo necessario, giusto, di un anno. Poi, dopo, è iniziato tutto un percorso, molto lungo, per la ricerca dei finanziamenti con la Gaundri (la società di Gaudino e della filmmaker Isabella Sandri ndr).
La scelta di Valeria Golino?
Cose solo positive e belle, la prima persona a cui avevo mandato la sceneggiatura – quando ancora il progetto si chiamava Un angolo di inferno – era lei. Non era riuscita a leggerla, ma dopo un anno e mezzo ebbi l’intuizione di insistere di nuovo e… andò bene. Ci sentimmo subito dopo. Volevo raccontare di una persona, oltre che la sua forza umana – da anima senza destino a anima in grado di trovare il suo vero scopo – la bellezza e il rovescio della bellezza. Quando Anna diventa ignava e tu dici, «ma come fa una così, con questo fascino, a contenere anche il suo opposto?» C’è la parte finale del film in cui dichiaro che lei è l’una e l’altra cosa insieme. Se non fosse stata lei Anna sarebbe stato molto più difficile far capire che lei, con la sua bellezza, potesse essere anche la parte più bestiale di noi. Io poi con tutti gli attori e le attrici che ho corteggiato per fare questo film ho sempre cercato di individuare, nella loro fisionomia, nelle loro voci, nelle loro movenze, nelle loro performance precedenti, qualcosa che fosse a metà strada, cioè che non fossero né cattivi, né dolci, né perversi, né stupidamente schematici. E ho trovato questo anche con Adriano Giannini, con Massimiliano Gallo, con i giovani figli. È chiaro che a un attore questo discorso puoi farlo, ai non-attori non puoi fare questo grande preambolo, questo disegno. Piano piano lo capiranno vedendo il film finito, capiranno che hanno messo in scena una parte di se stessi… inconsapevolmente.
Fin dalle prime prove i tuoi film dimostrano uno stile e un linguaggio sempre aperti – e in modo mai banale – a sperimentare. Immaginando che «Per amor vostro» non faccia eccezione, puoi dire qualcosa in merito?
Non ho tradito questa voglia di sperimentazione. Anzi è ancora più esasperata, è ancora più messa a repentaglio, la combinazione di elementi è ancora più imprevedibile. Se in altri lavori è graduale il passaggio da uno stadio all’altro, adesso è ancora più marcato. Questa storia ha permesso anche di poter attingere a un repertorio di musica che appartiene alla mia generazione – la generazione dei cinquantenni – e in generale alla memoria. Voglio dire che, per esempio, ho provato ad attingere alla memoria con un brano musicale famosissimo in Italia negli anni Sessanta, in relazione ad Anna. Perché vuole circondarsi di questa musica? Perché sono le uniche cose belle che ha potuto vivere nella disgrazia – nel background della storia Anna è stata quattro anni in riformatorio e le suore, per tenere buoni i bambini e le bambine, mettevano queste canzonette, e alcune di queste canzonette raccontano cose vere, ribaltandole, ma con grande poesia e con grande simbologia. Anna si affeziona a tutto ciò e riesce anche a coinvolgere i figli, facendoli assistere alle sue traduzioni in simultanea di testi musicali. Per esempio la storia della Traviata, e la traduce in un modo attraverso cui traspare quanto ami tantissimo questo modo di raccontare, rendendolo nel suo rovescio, prendendo in giro la storia ma – appunto – non riuscendo a prendersi in giro lei stessa. È questa combinazione, questo livello su livello, che è anche un discorso sul linguaggio.
Nel tuo cinema il territorio è determinante, elemento in grado di contaminare e trasfigurare ogni trama, basti pensare alla Pozzuoli «mitica» di Giro di lune. Qui ti confronti con Napoli, città di una fortissima, quasi ingombrante tradizione cinematografica. Cosa hai voluto far risaltare di Napoli?
Io conosco tante città che mi hanno suggerito delle storie e posso per esempio fare paragoni tra Berlino, dove ho vissuto, e Napoli, dove alla fine sono nato. A me di Napoli affascina quella che chiamerei la compresenza delle contraddizioni. Per esempio a Napoli esistono ben tre chiese dedite al culto delle anime più perse, più ignorate, e mi piace l’idea di poter raccontare che le persone più perse, più disorientate, occupino il loro tempo a cercare di acquietare queste persone «ignote», senza nome, questi resti umani che dovrebbero avere degna sepoltura e non stare in esposizione in una forma museale. Mi piace l’idea che esista un sopra e un sotto della città che non è una divisione a livello culturale. Voglio dire, la parte ancestrale è ancora viva. Se tu vai in queste chiese e in molte altre chiese, la modernità è compresente con l’aspetto più arcaico. E per me poter mettere in scena questo è una fortuna. Voglio poi raccontare che la sua bellezza è a rischio, basta poco per renderla inospitale, ma sta a noi non renderla tale, e non parlo dei soliti clichés. Parlo di una cosa ben diversa, è la proiezione che noi facciamo sulle cose. La città è bella perché c’è chi la abita. Ma se fosse vuota, sarebbe un incubo.