Alain Platel ci dà un altro capolavoro assoluto, come ci ha da tempo abituati. Lo ha presentato nei giorni scorsi alle Fonderie Limone di Moncalieri nell’ambito di Torinodanza, anche se qui di «danza» in senso stretto ci sono solo una manciata di minuti (cosa che può procurare visibile sconcerto a qualche specialista del settore). En avant, marche! (che tornerà in Italia a fine ottobre, a Modena nell’ambito di Vie), col suo racconto apparentemente dimesso della vita di una banda, di paese o di qualche periferia, è in realtà una grande opera musicale. È infatti il suono, con le sue armonie e le sue dissonanze, a dare tempo e respiro a un racconto struggente fino alla commozione, che molti spettatori non nascondevano al termine della serata, durante gli applausi trionfali.

Se per tanto tempo Platel è stato considerato un grande coreografo, si sa anche che non ha mai frequentato accademie di danza, e il movimento ammaliante dei suoi spettacoli nasceva dall’esperienza sua di lavoro con ragazzi affetti da disturbi del linguaggio. Ora l’artista fiammingo si trova ad esprimersi con la musica, pur senza aver mai imparato a leggere una partitura.
«Confesso di aver provato non poco imbarazzo – ammette con grazia sorniona – quando all’Opera di Madrid, il direttore dell’orchestra che accompagnava la mia creazione C(h)oeurs mi invitava a controllare le note sul pentagramma». Del resto, con la stessa sorridente decisione, dice di non essere affatto interessato alla regia lirica, per la quale lo spartito è necessario conoscerlo bene. Non l’ha mai fatta, né intende farla, anche se da tempo è proprio il suono a guidare il suo racconto del mondo.

Una quindicina d’anni fa a Londra, aveva realizzato un kolossal che risultava già una summa dell’argomento. Because I sing era la relazione vocale e finanche intima, che i componenti di sedici cori della capitale inglese (dai poliziotti ai gay, dall’Esercito della salvezza alle voci bianche ai ferrovieri) stabilivano in un flusso di esecuzioni e di spostamenti nel grande spazio della Roundhouse. E del resto è sempre stata la musica a veicolare risate e commozione nel suo teatro: fin dal primo che ha girato vent’anni fa (e che lui si rifiuta di riprendere nonostante le richieste), Bernadetje, in cui rombavano canzonacce da luna park, a Gardenia (ora divenuto anche film) ovvero un paradiso vocale travestito e mutante. Quando non son stati Bach o Monteverdi a farsi reinventare costruendo un percorso maledettamente contemporaneo. Perché poi, a suon di musica, Platel racconta periferie ed emarginazione, depressione ed estraneità, e perfino, in epoca non sospetta ancora negli anni 90, di migranti, pregiudizi e coabitazioni (Allemaal Indien).

«È la musica il linguaggio che amo di più, davvero unico, per la ricchezza di sentimenti e situazioni che può esprimere o creare». L’anno scorso, con un gruppo di musicisti e danzatori conosciuti a Kinshasa, spettatori di un suo spettacolo, aveva dato vita ad una esperienza esplosiva, che anche il pubblico italiano ha avuto modo di applaudire, Coup fatal. Ora invece confessa di esser stato conquistato dalle fotografie di una mostra, interamente dedicata alle bande musicali e ai suoi componenti. E del resto già fin dal titolo è chiaro che En avant, marche! è il segnale d’avvio di ogni fanfara. Da quelle immagini, la sua sensibilità ha chiesto a un drammaturgo di scrivere un testo dedicato a quell’esercizio musicale, alle sue prove, alla sua vita un po’ «laterale» rispetto alla comunità che la esprime, e a cui ricompare solo in occasione di festività, matrimoni, funerali. Un insieme di umanità che lo ha colpito: «Sono andato in un piccolo centro vicino Gand, a osservare a lungo una vera banda di paese. Era una comunità molto legata e solidale, che stava lì solo per il piacere di suonare, senza nessuna ambizione o desiderio di divenirne professionista».

3Vis1PLATELEn avant, marche! (c) Phile Deprez_7445

Frank van Laecke (che già aveva predisposto per lui la vicenda di Gardenia) ha scelto come punto di partenza drammaturgico uno spunto pirandelliano, L’uomo dal fiore in bocca. Il protagonista del racconto è così un suonatore di trombone, che a causa del tumore che gli è «sbocciato» in gola, deve passare a suonare i piatti. Steven Sprengels ha costruito a sua volta su quegli elementi una partitura, originale a parte le quattro citazioni dichiarate, ovvero Beethoven, Bach (prediletto da Platel, perfino nei titoli), molto Malher e Schubert. E poi tanti suoni dai Balcani. Sono il corredo «acustico» dell’ensemble, che oltre alla formazione centrale fermatasi a Gand nella sede de Les Ballets C de la B, chiama in ogni città i componenti di una banda locale (a Torino l’Unione musicale Condovese). Ma dire acustico è una pura indicazione strumentale. La musica è la sostanza stessa del percorso che accompagna il trombonista malato verso la morte

. Su quelle note tutta l’equipe fanfaresca squaderna un catalogo di ogni possibile umanità. Le mature donne col tutù di lamé sono le majorettes che possono stimolare erotismo e disperazione, ma anche tanta tenerezza; i suonatori più giovani e prestanti svelano a cosa può arrivare la padronanza del corpo quando la si possiede; i rapporti tra i musicisti raccontano tra sospiri e assoli quanto ogni esistenza può esprimere quando è la musica a possedere il corpo. Senza virtuosismi né vanitose esibizioni (per quanto siano tutti bravissimi e atletici), ma solo con la consapevolezza che ogni emozione va comunicata e vissuta assieme. Così che quel percorso mesto verso la morte, è ricco di ironia e anche di scoppi di ilarità. In uno spettacolo rigorosamente di insieme, ognuno lascia il segno della propria ricchezza e saggezza.

Ci si affeziona presto a quei personaggi «a tutto suono», e tutti, avvinghiati ai loro strumenti (praticamente solo fiati e percussioni, come una banda richiede), diradano presto lo spunto pirandelliano iniziale che pure ha dato prologo al dramma, e anche qualche suggestione che potrebbe venire dalla Prova d’orchestra felliniana. Nella sua semplicità traboccante di pathos, quella fanfara sbilenca, quanto determinata a conquistarci, scopre la sua asciutta originalità. A suon di ottoni, la vita può essere così pienamente vissuta da arrivare a elaborare una giusta e contenuta dimensione anche per la morte annunciata. Insieme, senza negarsi piaceri grandi e piccoli, ragionando ed accettando fino in fondo le emozioni. Meglio ancora a suon di musica. En avant, marche!