Selma James, classe 1930, è un’autrice e attivista statunitense, da molti anni residente a Londra. Ha scritto insieme a Maria Rosa Dalla Costa «Potere femminile e sovversione sociale». È stata protagonista del movimento per il riconoscimento del salario al lavoro domestico negli anni settanta. Oggi coordina il Global Women Strike.

Insieme a Nina Lopez (portavoce del Collettivo Inglese delle Prostitute) siete state a Gottinga, in Germania, per parlare di sciopero delle donne. Che impressioni hai avuto dal dibattito e dagli incontri a latere?

Prima di andare a Gottinga abbiamo avuto una serie di incontri a Berlino, un’esperienza molto ricca per noi. Abbiamo imparato molto. A Gottinga è stato diverso, un incontro più accademico. Si è discusso molto della definizione, cioè se chiamarlo «sciopero femminista» o «sciopero delle donne». Tra le ragioni di chi voleva chiamarlo «sciopero femminista», a parte quella dell’inclusione di persone trans o di altri generi, c’era quella dell’inclusione degli uomini, alcuni di loro sono femministi e in questo modo sarebbero stati inclusi. Il secondo motivo, era quello di volersi differenziare dalle donne che non sono femministe. Provo a dire la mia su questi punti. Penso sia importante per gli uomini avere un rapporto con lo sciopero e vederlo come un potenziamento per loro. Gli uomini sono stati sempre esortati a dire sciocchezze sulle donne, ma mai a parlare del proprio sfruttamento, di come soffrono, della loro posizione all’interno della famiglia, di cosa significhi essere uomini,di cosa significa vivere con la silouette maschile, di uomo macho che ti viene imposta. Penso sia tempo che gli uomini riconoscano che il rapporto tra loro e le donne è un rapporto di potere. Quindi non vogliamo che gli uomini siano tagliati fuori dallo sciopero, ma che lo appoggino perchè il potere che le donne costruiscono serva è anche per la loro liberazione. Lo sciopero globale delle donne è ovviamente inclusivo verso le persone transgender. Ognuno deve potersi identificare nel genere che desidera e aderire allo sciopero. Allo stesso tempo, rispetto alle esitazioni nel chiamarlo «sciopero delle donne», non credo che le donne debbano essere invisibili per far sì che lo sciopero abbia successo. Perché allora tanto varrebbe chiamarlo sciopero generale. Rendere le donne invisibili apre il varco all’agenda maschile. Altra cosa che non condivido è che la donna che si definisce femminista sia diversa dalle altre donne. Difficilmente le donne che vivono le situazioni più difficili, le donne deportate, si autodefiniscono femministe e al contrario molte donne in Parlamento si definiscono femministe, e poi votano le misure di austerity. Io mi dichiaro femminista, ne ho il diritto, ma in un movimento di massa non comincerei con ciò che esclude la base.

La cura prima era appannaggio delle donne, oggi forse questo è meno scontato, ma la cura è spesso delegata alle persone più povere. Come vedi il futuro della cura libera dallo sfruttamento?

Penso sia una parte cruciale della lotta di classe in questo momento. È una battaglia delle donne quella per avere il lavoro di cura riconosciuto, affinché la cura non ci impoverisca, affinché non sia la nostra unica mansione, affinché ognuna abbia altre opzioni. Il partito conservatore ha una soluzione per questo: i robot, un robot che controlla se la persona è ancora viva. Ma la verità è che la cura non può essere un lavoro come gli altri e che non può essere robotizzata. La cura è una relazione con persone a cui teniamo e non solo di cui ci prendiamo cura. La società deve dare la priorità a questa attività, questa è la mia soluzione. La società deve ricostruire se stessa a partire dalle relazioni, che sono relazioni di cura data ma anche ricevuta. Se costruiamo un movimento di massa, e non credo che oggi si possa fare a meno di questo, dovremmo elaborare come prima cosa come organizzare la cura. Ad esempio quanto le persone che ricevono cure possono autodeterminare ciò di cui hanno bisogno. Oggi molte persone anziane sono escluse dalla società, perché ci si possa occupare di loro in maniera più efficace, sono messi negli istituti. Questo accade anche con molti bambini, non possiamo decidere come e quando stanno negli asili perché siamo costretti a lavorare per il profitto di qualcun altro. Noi donne, e anche gli uomini, stiamo lavorando troppo, e non è necessario, temono che se non andiamo a lavorare possiamo fare qualcosa di terribile, come organizzarci contro il sistema. Dobbiamo ridurre la quantità di lavoro nei paese industrializzati, e collaborare con i paesi più poveri per trovare le tecnologie che consentano anche a loro una liberazione dall’incredibile quantità di lavoro che sono costrette a fare. Faccio un esempio legato alla Germania, c’è stato uno sciopero di 900mila lavoratori del settore metalmeccanico, e come risultato si è ottenuta la possibilità di lavorare per due anni 28 ore settimanali per avere più tempo per la cura. La cosa interessante è che l’82% di questi lavoratori sono maschi. Questo è un passo avanti, significa che gli uomini vogliono più tempo per la cura, anche se può comportare un calo del reddito. La cura è un’attività umanizzante, si diventa un essere umano completo quando si rende l’altro centrale nel proprio operato, oggi anche gli uomini stanno imparando. Ma ci deve essere tempo e spazio per questo, e ci deve essere denaro che consente di fare questo. Il mio punto è che la questione della cura si affronta rendendola una priorità collettiva.

Il movimento delle donne curde porta avanti una battaglia importante in un contesto difficile come quello mediorientale. Come pensi che si possano connettere le lotte che spesso si danno in contesti e in forme diverse?

La questione cruciale è l’indipendenza finanziaria in tutto il mondo, chiedere denaro o la terra, a volte per le donne la terra può essere una fonte di indipendenza finanziaria, per come sono strutturate alcune società. Penso che la prima cosa da fare è riconoscere indipendenza economica per chi svolge attività di cura. Le donne in primis, ma non solo. Un salario che ci permetta di evitare la violenza, disertare la guerra, proteggere l’ambiente, nutrire i bambini e chiunque abbia fame. È un potere sociale del tutto nuovo quello che deriverebbe dal salario per chi si prende cura.