Ordinario di Statistica metodologica all’Università di Milano Bicocca, 60 anni il prossimo 20 febbraio, fondatore del Meeting di Rimini e della Compagnia delle Opere che ha presieduto fino al 2003. Giorgio Vittadini, devoto dai tempi di don Giuss, è l’«inventore» della sussidiarietà parola-chiave nella galassia che dalla fraternità religiosa si espande a consorzi, società in Lussemburgo, trust agli antipodi e start up cofinanziate.
Vittadini dal 2002 guida la Fondazione per la sussidiarietà con un occhio di riguardo all’Intergruppo parlamentare (e a Bruxelles). Veltroni lo voleva candidare ma non ebbe successo. Con la ditta di Bersani i rapporti si sono, invece, concentrati sulla programmazione di grandi e piccole opere. Tramontata l’epoca dei berluscones ciellini (Formigoni, Lupi, Mauro), resta la vocazione sussidiaria della Lega di Maroni (e di Flavio Tosi) come della destra stile Alemanno. E ora c’è Renzi.

Professor Vittadini, l’edizione 2015 combacia con il debutto di Renzi. Qual è il significato? In sintonia con la tradizione dei premier in vetrina o scatta il “recupero” del boy scout?
Renzi era già venuto a Rimini come presidente della provincia di Firenze. Oggi la sua visita, insieme a quella di molti importanti ospiti internazionali, è in sintonia con il desiderio di sempre del Meeting di dialogare con le istituzioni. Prima del problema delle vetrine o di altri aspetti formali, c’è la necessità di collaborare al faticoso tentativo di evitare che l’Italia vada in serie B: metterebbe in una situazione ancora più drammatica i poveri o chi è in difficoltà. Abbiamo molte domande da fargli sul ruolo dell’Italia nel contesto europeo e mediterraneo per una politica di pace e di sviluppo.

Arriva lo stesso giorno perfino Fausto Bertinotti. Un segno dei tempi? La parabola definitiva della sinistra? Un dialogo di “riconciliazione”?
Personalmente al Meeting ho presentato tanti leader della sinistra, da Cofferati a Epifani, da Pisapia a D’Alema, così come di tutti gli orientamenti culturali. Ho sempre imparato moltissimo da questi incontri tra persone, anche con idee diverse, perché il Meeting è un luogo in cui tutti sono chiamati a dialogare rispetto al personale desiderio di costruire il bene comune. Oggi, più ancora che nel passato, il nemico è non avere a cuore niente, non chi crede sinceramente in un ideale per l’uomo, qualunque sia questo ideale. Da appassionato guareschiano ho sempre pensato che il rapporto tra don Camillo e Peppone generasse un bene per il popolo.

Siete il vero partito della nazione nel solco della sussidiarietà nazionale prima di Letta (Enrico). Quanto pesa il «compromesso storico» con Legacoop? O il «riformismo» di Napolitano?
Nel 2000, in tempi non sospetti, quando Silvio Berlusconi attaccò Legacoop la difesi pubblicamente e fui invitato al loro congresso. Per ragioni ideali mi sono sempre battuto per un’imprenditoria diversa, di corresponsabilità e non la rinnego certo adesso quando tutti la attaccano. Ritengo che Giorgio Napolitano abbia salvato l’Italia dal bipolarismo schizofrenico e malato di potere autoreferenziale della Seconda Repubblica. Ruolo che ho potuto appurare anche con la sua presenza al Meeting del 2011, in occasione della mostra controcorrente (contro risorgimentali, sabaudi e clericali reazionari) che facemmo sui «150 anni di sussidiarietà».

Il movimento di Comunione e liberazione, invece, sembra meno «oltranzista» del passato wojtyliano. Assenti al Family Day e defilati sui diritti civili. Più concentrati sulle opere, a cominciare da scuola, formazione e Welfare parallelo?
Spesso ci si dimentica che fino all’ ’89 dominava il muro tra Est e Ovest per tutti, anche all’interno della situazione italiana. Oggi possiamo essere più concentrati sul titolo del Meeting, «Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?», che è la chiave della nostra storia. Se si riduce la domanda di verità, bellezza, giustizia, anche sociale, di senso religioso, così come lo descrive don Luigi Giussani, ci si svuota e si finisce come diceva Jannacci con la televisione che «la t’endormenta cume un cuiun». E tutti ci prendiamo solo cantonate. Dobbiamo difendere in noi e intorno a noi la ricerca – personale e sociale – del vero, di quello che è all’altezza del nostro essere uomini. E imparare da papa Francesco: da cristiani essere una chiesa in uscita. Questo è ciò che ci mette in dialogo con tutti. Il resto, anche il modo di intervenire sulla società, è una conseguenza.

Dopo il Meeting dialogo anche con M5S in chiave enti locali (dalla Sicilia a Roma) predestinati a cambiare?
Vorremmo usare le chiavi del dialogo con tutti per aprire porte diverse da quelle della gestione del potere locale e centrale per poter approfondire la nostra esperienza di risposta ai bisogni della gente. Oggi, più che nel ’68, servono movimenti di base che aiutano l’uomo a non ridurre la portata del suo desiderio di bene e a costruire opere nel segno della sussidiarietà, a contribuire, sempre «dal basso», alla vita politica, in modo che i partiti non siano di plastica o ridotti a comitati elettorali. Alla sinistra, come a tutti gli altri, questo interessa ancora?

Oltre alla vetrina squisitamente politica cosa offrirà il Meeting?
Il programma è ricchissimo, ma in particolare l’attenzione sarà incentrata sull’apertura ecumenica e sul dialogo per la pace. S’incontreranno il parroco di Erbil in Kurdistan e di Aleppo in Siria, cristiani ortodossi e protestanti, musulmani ed ebrei, il ministro degli esteri tunisino e la First Lady afgana, russi e ucraini. È il Meeting per l’amicizia fra i popoli…