Il centenario della nascita di Robert Lowell (Boston, 1 marzo 1917-New York, 12 settembre 1977) è stato poco ricordato in Italia, pur trattandosi forse del massimo poeta americano del secondo Novecento, cioè protagonista di una cultura di cui tutti in Italia paiono informatissimi. Comunque lo si può leggere nella storica scelta delle Poesie (1940-1970) che Guanda tiene meritevolmente in catalogo (pp. XI+363), curata da Rolando Anzilotti nel 1972, e da me appena ritoccata nel 2001; mentre recente è la bella ancorché estenuante scelta della corrispondenza con l’amica per la pelle Elizabeth Bishop (Scrivere lettere è sempre pericoloso, a cura di Ottavio Fatica, Adelphi, pp. 445), che ci permette di conoscere il Lowell uomo nei suoi travagli letterari e anche psicotici (fu spesso ricoverato). Ma Lowell non era un maudit o un bohémien, apparteneva all’aristocrazia bostoniana, come racconta soprattutto nella sua raccolta più famosa, Life Studies del 1959, con cui passò dalla contorta poesia politico-religiosa all’ombra dell’atomica che gli diede la fama alla lirica «confessionale» in cui lo seguiranno le allieve Plath e Sexton (ma non la Bishop, la cui stella a differenza di quella di Lowell, non ha conosciuto intermittenze nella fortuna).

Quante lettere scrivevano questi dipendenti della macchina da scrivere e della pagina bianca… Molte (troppe) si sono conservate, divenendo in pochi anni archeologia. Ma quelle di Lowell, una cui scelta, The Letters of R.L., conta 849 pagine, sono davvero il ritratto di un uomo e di un’epoca. Il mondo letterario, e poi il mondo culturale e sociale in cui il poeta si sentiva chiamato a svolgere un ruolo di interprete dei contemporanei. Cosa che Lowell, molto più politico dell’algida Bishop, fa in poesie da antologia come «L’ora della puzzola» (l’individuo esploso) e «Per i caduti dell’Unione» (cioè i caduti nordisti, titolo ironico in quanto la poesia paragona gli ideali per cui si combatté la Guerra civile al vuoto consumista del 1964). E poi ci sarà la Marcia sul Pentagono, quando persino Norman Mailer si genufletterà davanti al discendente degli arcigni religiosi puritani che con lui marciava e ai manifestanti leggeva i suoi versi scanditi e smagati: «Quando mi rannicchio davanti al mio televisore, / le facce smunte degli scolari negri si levano come palloncini… Dappertutto / enormi automobili pinnute spingono avanti il naso come pesci; / un servilismo feroce / scorre sul grasso».

A Dublino, Trinity College

Del centenario di Lowell («Cal» per gli amici) si sono ricordati a marzo i dublinesi del Trinity College, stimolati forse anche dal suo ruolo maieutico nei confronti del loro bardo rurale Seamus Heaney. E dopo Dublino, dal 30 marzo al 1° aprile, l’elvetica e cattolicissima Università di Friburgo ha festeggiato Lowell col convegno Beyond the Alps Robert Lowell in Europe. Presenti alcuni dei massimi lowelliani, come il decano Steven Axelrod, che sta curando l’edizione delle prose, e la vivace Saskia Hamilton, che insegna al Barnard College della Columbia e prepara un volume delle «Dolphin Letters».

Infatti The Dolphin è la penultima raccolta di Lowell, sequenza di sonetti sciolti (forma ossessiva del poeta dagli anni sessanta) che registra la fine del lungo matrimonio con l’americana Elizabeth Hardwick (nota scrittrice anch’essa) e la nuova unione con la folgorante «delfina» angloirlandese Caroline Blackwood, già moglie di Lucien Freud, 15 anni più giovane di Elizabeth, che a Lowell nel 1971 diede un figlio, Sheridan (da Elizabeth era nata nel 1957 la figlia Harriet): «Mio Delfino, mi guidi solo con la sorpresa, / prigioniero come Racine, uomo d’arte, / tratto per il suo labirinto di composizione ferrea / dal vagare incomparabile della voce di Fedra. /

Quando ero turbato nella mente ti gettasti sul mio corpo / stretto nel cappio da boia delle sue lenze affondate…».
Lowell come si vede non abbandona mai il Grande Stile, è proprio il Poeta Laureato dell’Età dell’Ansia. Forse lo abbandona nell’ultimo libro, Giorno per giorno, da noi uscito negli Oscar nel 2001 (urge una riedizione!): «Giaci nelle mie braccia insonni, / come se avessi bevuto il sonno come caffè. // Poi, / come un orso che rovescia un alveare in cerca di miele, / scuoti il cuscino alla ricerca delle sigarette francesi». È una scena da Lucien Freud, o Francis Bacon, con l’ex-moglie del primo.

Per tornare a The Dolphin, qui Lowell raccontò il suo travaglio coniugale («un uomo, due donne, la solita trama da romanzo») attingendo liberamente alle lettere di Elizabeth abbandonata, e questa trasgressione gli fu rimproverato dalla vigile Bishop: «Domenica ho ascoltato dei vecchi dischi / mentre mettevo in ordine i miei, e ho trovato / quelli con la tua voce, e stavo dicendo / a Harriet di ascoltarli; ma abbiamo subito / scosso la testa. Era come sentire / la voce dell’amato morto…».

Così la storia si dipana fra scritture e riscritture. Saskia Hamilton ha appunto in preparazione un volume con tutte le lettere originali di Lowell, Hardwick, Caroline (ma forse l’ereditiera tabagista non ne scrisse)… Un coro di voci da cui emerge la poesia con i suoi alti e bassi, e magari qualcuno preferirà il nudo documento originale alla sua rielaborazione poetica. E qualcuno dirà che questo triangolo come tanti è di scarso interesse. Ma naturalmente conta l’intensità con cui Lowell lavora sul suo materiale autobiografico per renderlo esemplare, monumentale pur essendo un monumento alla debolezza e a un nostro tempo (anni cinquanta, sessanta, settanta) che continua a interrogarci.

Intanto a Friburgo gli studenti del curatore del convegno Thomas Austenfeld ascoltavano sbigottiti i provetti lowelliani che si avventuravano in questi meandri di un altro secolo. Hannah Arendt, Mary McCarthy… chi erano costoro? Lowell conosceva e frequentava tutti. Aveva una rendita, non doveva lavorare per vivere, anche se insegnò a Harvard. Trascorse periodi abbastanza lunghi all’estero (1950-’53), a Roma frequentando l’americana principessa Caetani della prestigiosa «Botteghe Oscure», ad Amsterdam scrittori e critici sopravvissuti alla deportazione nazista. I ricoveri psichiatrici che iniziano nel 1949 sono oggetto del recente volume biografico di Kay Jamison, R.L., Setting the River on Fire: A Study of Genius, Mania, and Character (Knopf). Ma Astrid Franke nella sua relazione a Friburgo ha sostenuto che la Jamison troppo spesso scambia farmacologia per cultura, cioè che la malattia di Lowell va piuttosto restituita al suo contesto storico.

Un senhal poundiano

Per studenti e lettori Lowell resta dunque un personaggio magmatico che apre le porte sulla storia culturale e letteraria angloamericana e non solo, e sulla Storia di cui volle essere interprete e decifratore con maggiore e minore successo. Un suo strano tardo libro si chiama infatti History ed è più o meno una storia-incubo universale in sonetti sciolti. Non per nulla anche Eliot e Pound erano fra i suoi punti di riferimento, e una poesia di Life Studies s’intitola «Ritorno a casa da Rapallo», dove nel febbraio 1954 Lowell era accorso al capezzale dell’augusta madre morente. Sicché, come la poesia ricorda, egli s’imbarcò da Genova con la bara materna in una giornata di bellissimo sole invernale. E ne scrisse a Pound, che soleva visitare nel manicomio di Washington dove era detenuto: «Per una settimana mi sono sentito molto vicino a te, e credo di capire meglio il mio vecchio amico, l’uomo sotto le maschere». Insomma, Rapallo nel titolo è un senhal poundiano. Storie di genio, mania e carattere, appunto. Ho chiesto a Saskia che ne è stato dei due figli del poeta. Mi ha detto che Harriet dopo un grave incidente sportivo gira in carrozzella ma sta bene, mentre Sheridan, figlio della delfina Caroline, distribuisce opuscoli sulla rivoluzione comunista per le vie di Manhattan.