Mentre tiene banco la rovente opposizione dei francesi alla riforma pensionistica di Macron, l’Ocse, in un rapporto di fine 2019, esprime la sua contrarietà alla quota 100 italiana, sostenendo che occorra un maggiore «equilibrio» fra il tempo di lavoro e quello in cui ci si gode il meritato riposo. Argomentazioni simili sono esposte in rapporti di Ue e Fmi, e sostenute da personaggi quali Cottarelli, Monti, Veltroni.

Nella interpretazione che ci viene proposta, la pensione é vista come il gruzzolo di monetine conservate nel proverbiale salvadanaio: non si può dare troppo oggi a chi ha versato troppo poco fino a ieri, perché i soldi non ci sono.

È una immagine di immediata efficacia, mutuata dalla saggezza popolare che insegna ad essere previdenti, fare sacrifici per il futuro e coltivare con cura la pianta per poterne goderne i frutti, ma non ha alcuna relazione con la realtà.

In un sistema pensionistico pubblico la ricchezza versata coi contributi non viene messa in freezer e «scongelata» al momento della pensione, ma viene trasferita in un flusso continuo da coloro che lavorano a coloro che hanno superato l’età pensionistica. La pensione non è il mucchio di spicci che si trovano nel salvadanaio, ma è una parte della ricchezza prodotta dalla società, e il rapporto fra quanto il lavoratore ha versato e quanto otterrà effettivamente è frutto di scelte esclusivamente politiche.

La riforma Dini del 1995 introdusse il criterio «contributivo», cioè la correlazione rigida fra ciò che esce dalle tasche del lavoratore e ciò che vi rientrerà quando egli sarà pensionato. Solo due anni più tardi la legge Treu, permettendo una precarizzazione di massa, preparò la catastrofe futura: stipendi bassi e minori contributi comporteranno pensioni miserevoli per gli anziani di domani. Se è legittimo sostenere che quanto percepito dal pensionato abbia un rapporto con il suo percorso lavorativo e contributivo, presumere che si tratti di una mera corrispondenza aritmetica è completamente infondato, se non una vera truffa.

Nella narrazione ufficiale, il criterio contributivo pretende, paradossalmente, di essere una forma di «giustizia intergenerazionale», come se le peggiori condizioni che aspettano i pensionati di domani non dipendessero dal deterioramento delle dinamiche salariali odierne, ma dal fatto che i pensionati di oggi stiano succhiando il benessere ai propri figli! Il criterio contributivo si ammanta, inoltre, di una «responsabile» difesa della sostenibilità del sistema, evitando che lo Stato debba impegnare troppe risorse nella previdenza. La spinta alla diminuzione delle pensioni si appoggia dunque sul più durevole e saldo mito della Seconda Repubblica e dell’economia targata Ue: che l’aumento del debito pubblico sia da attribuire alla spesa pubblica eccessiva. Ma questo non corrisponde alla realtà, i dati sono schiaccianti.

Nonostante le numerose riforme del settore (Dini 1995, Amato 1992, Prodi 1997, Maroni 2004, Damiano-Padoa Schioppa 2007, Fornero 2011) abbiano ridotto notevolmente la spesa pensionistica, il debito non è mai sceso, anzi è aumentato sia in termini assoluti che rispetto al Pil.

Nel Def del 2015 campeggiava un bel grafico (5.1, p.196) in cui il peso della spesa pensioni sul PIL veniva estrapolata fino al 2058 mettendo a confronto 5 normative distinte: la curva che indicava la maggiore spesa era la più vecchia, quelle recenti indicavano una spesa sempre minore. Ma i risultati sui conti pubblici sono irrisori. Esemplare la prosopopea del governo Monti; nel D.L 201/2011 (art. 24, c.1) dichiarava: «Le disposizioni del presente articolo sono dirette a garantire il rispetto, degli impegni internazionali e con l’Unione europea, dei vincoli di bilancio, la stabilita’ economico-finanziaria e a rafforzare la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico in termini di incidenza della spesa previdenziale sul Pil», ma sotto il suo governo il rapporto debito/Pil è cresciuto dal 114% al 129%.

Che al di là della propaganda il vero obiettivo sia diminuire le pensioni tout court non occorre leggerlo in qualche documento segreto. Un articolo di Repubblica del settembre 2001 titolava «Pensioni, la riforma va bene, risparmiati 24mila miliardi».