Tecnici da una parte, giuristi dall’altra. Conti pubblici contro possibili ricorsi. Il decreto che il governo si appresta a varare per far fronte alla sentenza della Corte costituzionale sull’illegittimità del blocco della rivalutazione delle pensioni dovrebbe far tremare i polsi di qualunque legislatore.

Se l’attenzione mediatica finora si è concentrata sul problema del rispetto del Def e del parametro europeo del 3 per cento fra deficit e Pil, il rispetto della sentenza e i possibili – già ieri probabili – ricorsi per un mancato rispetto della sentenza stessa potrebbero avere effetti molto più gravi e duraturi. Esattamente come quelli della riforma Fornero. Perché la logica che muove il governo Renzi è la stessa che mosse quello Monti: considerare le pensioni semplicemente come una spesa pubblica. Reiterando la ratio che la Consulta ha sonoramente bocciato.

Dando per assodato che il decreto prevederà di rimborsare le rivalutazioni solo fino ad una determinata soglia, il governo – in tutte le dichiarazioni fatte in questi giorni – sostiene di rispettare la sentenza. E nel farlo si cita il passaggio della sentenza in cui si ricorda il precedente del via libera al blocco della rivalutazione «ai soli trattamenti pensionistici eccedenti otto volte il trattamento minimo Inps» nella sentenza 316 del 2010.

Si tratta di un provvedimento adottato dal governo Prodi nel 2007 che faceva parte del famoso Protocollo sul welfare con le parti sociali – l’ultimo esempio di concertazione – del 23 luglio.
La citazione fatta da chi propugna il blocco delle rivalutazioni è infatti assai incompleta. E soprattutto non tiene conto delle motivazioni per cui fu decisa quella norma. Cosa che invece fa la Corte costituzionale nella sua sentenza. Il blocco fu infatti deciso per finanziare il superamento del cosiddetto «scalone» introdotto da Maroni – il colpo di mano con cui il governo Berlusconi modificò l’età minima per accedere alla pensione di anzianità, spostandola di colpo da 57 a 60 anni dal 2008, a 61 dal 2010 e a 62 dal 2014.

La Corte più volte infatti sottolinea come «la ratio della norma» contemperava «l’esigenza di reperire risorse necessarie a compensare l’eliminazione dell’innalzamento repentino a sessanta anni a decorrere dal 1° gennaio 2008 dell’età minima per l’accesso alla pensione di anzianità», con «lo scopo dichiarato di contribuire al finanziamento solidale degli interventi sulle pensioni di anzianità».

E ancora: «Si trattava di una misura finalizzata a concorrere solidaristicamente al finanziamento di interventi sulle pensioni di anzianità».
Il concetto di «solidarietà» dunque è centrale per la Consulta. E si esplica in maniera molto precisa: i soldi recuperati con il blocco devono essere usati all’interno del sistema pensionistico per aiutare altre categorie.

Sia nel caso della riforma Fornero sia nel probabile testo del decreto che il governo dovrebbe approvare a giorni il tema della solidarietà non c’è. E ancor di meno si prevede che il blocco delle rivalutazioni – sebbene solo per le pensioni sopra 8 volte il minimo – sia utilizzato all’interno del sistema pensionistico. Magari per innalzare le pensioni da fame dei giovani che tutti dicono di voler aiutare. Ma nessuno – a partire dalla Fornero – ha mai aiutato.

Ecco dunque che un decreto che abbia la stessa ratio della riforma Fornero spalancherebbe il fianco a ricorsi che, coerentemente con la sentenza, sarebbero accolti. Provocando un ulteriore buco nei conti pubblici.

Perché la sentenza della Corte va «letta, capita e interpretata», come dicono all’unisono gli esponenti dell’esecutivo. Ma va letta tutta. Non solo nelle parti che sembrano dare ragione al governo.