Sei pensionati su dieci in Italia vivono al di sotto della soglia di povertà perché percepiscono meno di 750 euro al mese. Tra le donne la percentuale aumenta. Secondo l’Osservatorio pensioni dell’Inps raggiunge il 76,5%. Su 18 milioni e 29.590 mila pensioni, ben 11 milioni e 374.619 mila si trovano in questa situazione. Di queste, solo il 44,9% – ovvero 5 milioni e 106.486 mila – beneficia delle prestazioni previste per chi una reddito basso: integrazione al minimo, maggiorazioni sociali, pensioni e assegni sociali, oltre che assegni di invalidità civile.

Va ricordato che in molti casi i pensionati riscuotono più di un assegno, il macro-dato indica solo sommariamente una condizione di povertà assoluta. Certo è che nel 26% dei casi, l’assegno resta sotto 500 euro al mese.
I dati diffusi ieri dall’Osservatorio Inps disegnano la mappa della diseguaglianza tra i generi che vige sul mercato del lavoro e logicamente continua quando i lavoratori hanno smesso di lavorare. il divario tra i due generi è accentuato; infatti per gli uomini la percentuale di prestazioni con importo inferiore a 750 euro scende al 45,1% e se si analizza la situazione della categoria vecchiaia si osserva che questa percentuale scende al 23,7%, e di queste solo il 23,3% è costituito da pensioni in possesso dei requisiti a sostegno del reddito. Sempre per i maschi, si osserva che oltre un terzo delle pensioni di vecchiaia è di importo compreso fra 1.500 e 3 mila euro.

Questa disuguaglianza va analizzata rispetto al funzionamento della «riforma» Fornero, adottata dal «governo di emergenza austera» guidato da Mario Monti. Nel 2011 l’intervento ha innalzato l’età per le pensioni di vecchiaia delle lavoratrici private da 60 anni a 65 e aumentato di un anno le pensioni di anzianità, ridenominate «anticipate».

Per andare in pensione prima dell’età dio vecchiaia oggi occorrono 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Oggi i risultati iniziano a vedersi: nel 2016 le pensioni anticipate sono crollate del 46,4% in un anno, passando da 158.589 mila a 84.988. Le donne sono le più penalizzate: solo 29.333 sono riuscite a ritirarsi.

L’allungamento dell’età pensionabile, e la messa al lavoro intensiva dei lavoratori over 50 realizzata dal Jobs Act di Renzi e del Pd, sono i fattori convergenti che permettono oggi all’Inps di registrare un calo della spesa per le pensioni dell’11,3%. Tenendo conto che per le generazioni nate dal 1970 in poi difficilmente ci sarà una pensione, almeno paragonabile a quelle «novecentesche» di cui parla oggi l’Inps, l’esperimento di ingegneria sociale neoliberale prospettato dal 1995 a oggi, sta riuscendo.

Risparmiare sulla spesa pensionistica, facendo lavorare più intensamente e più a lungo i lavoratori maturi. Mentre i precari, e gli autonomi, compresi i professionisti, continueranno a versare contributi per una pensione che non avranno mai. La spesa pensionistica non aumenta e, anzi, da tre anni c’è stata un’inversione di tendenza (-0,6% annuo), anche se in valori assoluti l’importo complessivo annuo è in crescita.

Il presidente Inps Tito Boeri ritiene che il taglio dei «vitalizi» dei parlamentari (risparmio 57 milioni) sia un «antidoto» per ridurre «il sostegno alla piattaforma dei populisti», anche se questo è uno dei punti del movimento 5 Stelle. E poi ha rilanciato un «reddito minimo garantito» per «i più poveri» perché «è meno costoso» del «reddito di cittadinanza».

Resta da capire se tale «reddito minimo» coincide con l’irrisorio sussidio di ultima istanza voluto dal governo Gentiloni, o sia riservato solo agli over 55. In entrambi i casi sarebbe una misura del tutto insufficiente per contrastare la crisi.