Nella ricerca di una intesa post-elettorale i due partiti vincenti, M5S e Lega, hanno cercato un terreno comune. Uno di essi è il proposito di modificare o addirittura abolire la Riforma Fornero del sistema pensionistico. Entrambi la nominano esplicitamente nel rispettivo programma di governo.
Immediatamente vari falchi della cultura della «stabilità finanziaria» si sono precipitati a soffocare sul nascere qualsiasi iniziativa del genere. Christine Lagarde, a capo del Fondo monetario e la Bce sono scesi in campo per bacchettare l’Italia. La prima avverte in una intervista i vincitori che andando al governo si assumono comportamente più realistici, in particolare «non si può spedere più di quanto si è incassato». Anche l’istituto guidato da Mario Draghi nel suo bollettino economico di marzo invita a non abbandonare le riforme fatte; anzi a farne altre! “Riforma” ovviamente è solo una terminologia bugiardosa per indicare misure peggiorative per i ceti popolari.

La signora Lagarde se ne intende. Prima di venire paracadutata al Fmi era ministro dell’Economia sotto la presidenza Sarkozy (2007-2011) e la riforma delle pensioni varata da tale governo fra settembre-novembre 2010 non pare aver particolarmente allietato i cittadini francesi: il crollo di consenso del Presidente in carica fu uno dei peggiori di tutta la sua vita politica (almeno finora). Veramente ingrati i francesi: e dire che le riforme pensionistiche fra il 2010-15 hanno regalato “solo” due anni di lavoro in più con una decurtazione di un -4,5% della pensione totale (mentre i più poveri hanno avuto un massiccio -6%), secondo quanto sostiene un ponderoso studio del ministero francese della Solidarietà e della Salute (Les réformes des retraites de 2010 à 2015, dicembre 2016).
Purtroppo l’amore per i «conti in regola» talvolta viene macchiato nella sua cristallina purezza, come quando invece si infrange per favorire gli interessi dominanti; come quando nella riunione dello stesso Fondo della signora Lagarde il 9 maggio 2010 si decise un esborso di 30 miliardi a favore della Grecia, in cambio del quale sarebbero state massacrate le pensioni dei greci (oltre al resto) in 14 pacchetti di austerità. Solo, che l’obiettivo era salvare le banche francesi e tedesche coome i funzionari del Fondo di nazionalità non europea rinfacciarono apertamente ai colleghi; ma ancora c’era a capo della istituzione Strauss-Kahn, che ambiva a concorrere alla presidenza, e quindi voleva fare un favore ai suoi banchieri. Si è così finanziato un debito che difficilmente verrà saldato, nonostante il massacro sociale.

La seconda repubblica nasce con una riforma del sistema pensionistico: da Amato (1992) si sono succedute le riforme di Dini (1995), Prodi (1997), Berlusconi (2001), Maroni (2004), Damiano-Padoa Schioppa (2007), Sacconi (2010), Fornero (2011). Il trend è stato per lo più il peggioramento delle condizioni dei lavoratori-pensionati.

Risultato? Secondo un dossier del Servizio Studi della Camera, che compara i sistemi previdenziali di 30 paesi, quello italiano è il più duro in assoluto rispetto alle soglie di età da raggiungere. Ed infatti, secondo la Ragioneria dello Stato, i provvedimenti presi hanno comportato «un andamento della spesa in rapporto al Pil fra i più favorevoli nell’ambito dei paesi europei», dato che «essi hanno generato una riduzione dell’incidenza della spesa pensionistica in rapporto al Pil pari a circa 60 punti percentuali di Pil, cumulati al 2060. Di questi, circa due terzi sono dovuti agli interventi adottati prima del DL 201/2011 (convertito con L 214/2011) e circa un terzo agli interventi successivi»; in particolare quello del 2011 (la Fornero) ha operato «una riduzione della spesa in rapporto al Pil che si protrae per circa 30 anni, a partire dal 2012» (Ragioneria generale dello Stato, agosto 2017). E si continua a parlare di altre «riforme».
Sarebbe proprio ora di finirla.