Il 31 dicembre 2021, al termine del triennio sperimentale di «Quota 100» le lancette dell’età pensionabile torneranno al 2019, con un brusco salto da 62 a 67 anni.

Come riformare le regole previdenziali evitando lo «scalone» e avviare la costruzione di un sistema pensionistico non solo sostenibile economicamente, ma anche adeguato – e quindi sostenibile sul piano sociale e politico – sia rispetto alle condizioni di accesso alla quiescenza che al livello delle prestazioni?

L’operazione non è facile.

Da un lato, infatti, l’Italia ha età pensionabile ed età effettiva di uscita dal mercato del lavoro tra le più elevate d’Europa, che combinate con sensibili differenziali nell’aspettativa di vita (3-5 anni) tra le classi sociali evidenziano le profonde iniquità e i profili marcatamente regressivi dell’assetto attuale. Dall’altro, la spesa pensionistica più alta nell’UE determina un vincolo sulle risorse disponibili.

Diverse sono le proposte circolate nel dibattito pubblico per «superare Quota 100»:

  1. «Quota 102» consentirebbe il pensionamento con 64 anni d’età e 38 di contribuzione;
  2. «Quota 41» ammorbidirebbe i requisiti per la pensione anticipata;
  3. una terza opzione prevede la possibilità – per i lavoratori nel «sistema misto» – di anticipare la quiescenza a 63 anni ricevendo solo la parte contributiva della pensione purché almeno pari a 1,2 volte l’assegno sociale;
  4. l’opzione «contributiva» consiste nel passaggio integrale al metodo contributivo con pensionamento a 64 anni e importo pensionistico minimo almeno pari a 2,8 volte l’assegno sociale.

Che fare?

Circa i costi, come evidenziato nel Rapporto Annuale INPS, l’opzione più onerosa (Quota 41) produrrebbe un incremento di spesa di 0,4% del PIL nell’anno di maggiore impatto (2031). Questi dati vanno contestualizzati non solo rispetto al livello di spesa pensionistica, ma anche alla tendenza di questa.

Lo stesso Rapporto INPS mostra infatti che, in assenza di misure espansive, la spesa per pensioni sul PIL diminuirebbe dal 16,2% nel 2020 al 14,6% nel 2027. Nel complesso, quindi, i dati ci dicono che la spesa pensionistica è ancora elevata, ma vi è comunque un margine di manovra per i decisori politici.

In questo quadro è pertanto fondamentale destinare le risorse aggiuntive in modo efficace – coprendo adeguatamente bisogni effettivi – ed efficiente, intercettando cioè prima di tutto le situazioni di maggiore sofferenza. Il criterio che consente di combinare efficacia ed efficienza è l’equità, specie alla luce delle iniquità ed elementi regressivi presenti nel sistema. In tale prospettiva, ispirata a un principio di progressività delle tutele, pare opportuno delineare le seguenti raccomandazioni di policy.

Primo, è opportuno evitare provvedimenti disegnati come «Quota 100», che non ha solo incontrato un limitato interesse tra i lavoratori (253.000 beneficiari contro i 617.000 stimati dal governo) ma anche favorito il pensionamento anticipato di gruppi non particolarmente svantaggiati: uomini, occupati nel settore pubblico e con redditi medio-alti – oltre a poche donne (73.000) con redditi elevati. Provvedimenti simili rischiano di approfondire le disuguaglianze nell’accesso al pensionamento, in un sistema che già presenta un’elevata disuguaglianza dei redditi pensionistici – la seconda più elevata d’Europa secondo il Pension Adequacy Report della Commissione Europea.

Secondo, è utile riprendere la via aperta con l’«APE sociale» e la nomina della commissione di studio sui differenziali nell’aspettativa di vita, al fine di definire condizioni più favorevoli – rispetto a regole di accesso al pensionamento e/o calcolo delle prestazioni – per gli individui maggiormente svantaggiati, impiegati in mansioni gravose, con minore aspettativa di vita, a media-bassa retribuzione, con carriere frammentate.

Terzo, è necessario riflettere su come costruire un sistema adeguato, sostenibile ed equo anche considerando il prossimo avvicendamento tra le coorti di pensionandi nel regime misto e quelle nel contributivo puro: si tratterebbe di prevedere regole omogenee, e auspicabilmente flessibili, per il pensionamento – pur calibrate rispetto ai diversi regimi. Ciò consentirebbe anche di rimuovere alcune delle iniquità più marcate delle regole attuali, specialmente le soglie di importo minimo per il pensionamento di vecchiaia e anticipato (1,5 e 2,8 volte l’assegno sociale) che non hanno pari nei sistemi pensionistici europei.

L’adeguatezza delle prestazioni non si costruisce infatti tramite l’imposizione di clausole regressive come quelle in oggetto. Intesa sia come «prevenzione della povertà» che come «mantenimento del reddito» nella vecchiaia, l’adeguatezza va invece perseguita «strutturalmente» tramite la buona performance del mercato del lavoro, obiettivo non facile da raggiungere, e per conseguenza soprattutto formule di calcolo progressive (considerato il vincolo sulle risorse) – anche abbinate a prestazioni minime come la «pensione di garanzia» – nonché opportuni meccanismi di finanziamento, sfruttando maggiormente la leva fiscale come già avvenuto in diversi paesi UE.

* Professore ordinario, Università di Milano