La propaganda governativa e renziana in questi ultimi tempi si sta vendendo una supposta «svolta sociale» su uno dei temi più sentiti e popolari: le pensioni. Lo storytelling spaccia come grandi risultati voluti dallo stesso Renzi la 14esima appena erogata ai pensionati, l’Ape nella sua versione Sociale e quella Volontaria che tarda ad arrivare. In più si danno per già decisi gli interventi sulle pensioni dei giovani.

LA REALTÀ è – come al solito quando parlano Renzi e renziani – ben diversa. A partire dalla volontà di raggiungere questi obiettivi e di come lo sono stati. Le pressioni per ottenere ognuno di questi provvedimenti è infatti arrivato dalla parte dei sindacati spalleggiati dall’opposizione di sinistra e – ma neanche sempre – dalla minoranza Pd. Cgil, Cisl e Uil fin dal 2014 hanno lanciato una «piattaforma unitaria» sul tema. I primi punti della Piattaforma votata dagli esecutivi delle tre confederazioni il 10 luglio 2014 recitava: «Tutela dei giovani e adeguatezza delle pensioni», «Accesso flessibile al pensionamento», «Rivalutazione delle pensioni».

RENZI A QUEL TEMPO era presidente del Consiglio da quattro mesi e vedeva i sindacati – e le loro proposte – come fumo negli occhi. Li ha incontrati una sola volta: l’8 ottobre di quell’anno e solo per un’ora e 46 minuti, riaprendo per quella sola volta la Sala Verde di palazzo Chigi simbolo delle riunioni del periodo della concertazione. Invece di seguire le richieste del sindacato nel frattempo ha: tolto l’Imu indistintamente, appoggiato tutte le richieste di Confindustria, tolto l’articolo 18 assieme a buona parte dei diritti del lavoro.

Tre anni dopo tanta acqua è passata sotto i ponti. E solo per cercare di recuperare qualche voto in vista del referendum costituzionale – poi perso sonoramente – Renzi ha dato mandato ai suoi economisti (Tommaso Nannicini, Marco Leonardi e Luigi Marattin) di trattare con i sindacati qualche contentino sociale in vista della manovra 2016. La trattativa in realtà è stata portata avanti dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti ma cifre e strumenti venivano decisi dai consulenti di palazzo Chigi.

I sindacati confederali spalleggiati da quelli dei pensionati (Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilp) dopo lunghi tira e molla lo scorso settembre hanno portato a casa qualche risultato. Che naturalmente, ora che viene erogato, Renzi spaccia per farina del suo sacco.

PARTIAMO DAL PIÙ RECENTE e fattivo: la 14esima. Renzi si vanta «di averla data a 3,5 milioni di pensionati». I fatti sono ben diversi. La 14esima è stata introdotta dal governo Prodi nel 2007, ministro del Lavoro Cesare Damiano. È sempre stata erogata per oltre 2 milioni di pensionati. L’accordo coi sindacati ha permesso di allargare la platea e di aumentarne l’entità per chi già la prendeva. Nello specifico: spetta dal 64esimo anno di età e, per i due milioni di pensionati il cui reddito non supera una volta e mezzo il trattamento minimo (che già la prendevano) è divisa in tre fasce a seconda degli anni di contributi (dai 15 ai 25 e più) e del reddito (solo sotto i 10.441,86 euro) e varia dai 437 ai 655 euro sia per ex lavoratori dipendenti che autonomi. Viene erogata per la prima volta a chi ha un reddito compreso tra una volta e mezzo e due volete il trattamento minimo (inferiore ai 13.553,14 euro) con tre scaglioni: fino a 15 anni di contributi sono 336 euro; da 15 a 25 anni sono 420 euro, oltre i 25 anni sono 504 euro. Insomma, si tratta di una tantum significativa ma che di certo non cambia la situazione ai pensionati poveri. Passiamo ora ad uno dei tanti acronimi inventati dai renziani. Si tratta dell’Ape che sta per Anticipo pensionistico. Anche qui, dopo una lunga trattativa i sindacati hanno spuntato qualcosa che per la prima volta si avvicina alla tanto richiesta flessibilità in uscita.

NELLO SPECIFICO però solo la versione Sociale è la possibilità di andare in pensione in anticipo. Il problema già denunciato da Cgil, Cisl e Uil è che le categorie a cui viene data questa possibilità sono poche, tante le escluse: prima fra tutti quella degli edili che rimarranno sui ponteggi fino a 67 anni. I paletti messi infatti sono molto stretti, così come la procedura di richiesta. Le quattro categorie “coperte” che possono fare domanda dallo scorso primo maggio sono: i disoccupati da almeno tre mesi (in pratica le migliaia di esodati dalla Fornero non coperti da alcuna salvaguardia); chi assiste un familiare o è invalido civile almeno al 74 per cento e, infine, coloro che svolgono o hanno svolto per almeno sei anni «in via continuativa» un lavoro gravoso: in pratica facchini, operai siderurgici, macchinisti, maestre di asilo, addetto alle pulizie. Ma anche per loro dimostrare di avere fatto queste mansioni per sei anni consecutivi non è facile, specie se si è lavorato in nero oppure molti anni fa visto che è richiesta la documentazione dell’azienda presso cui si è operato con contratti e busta paga annesse.

PARLARE DI SUCCESSO come fa Renzi dunque per le «35 mila persone che ottengono l’Ape social» è quanto meno prematuro. Vedremo quante domande saranno accettate. Con la certezza però che i fondi previsti – 300 milioni per quest’anno – basteranno solo per circa 60mila persone. Chi fa la domanda in ritardo sa già che non otterrà l’assegno, il cui importo massimo è di 1.500 lordi.

SE SULL’APE SOCIAL Renzi può fare annunci, per la versione «volontaria» i ritardi iniziano ad essere imbarazzanti. Al ministero del Lavoro i tecnici sono infuriati. Il decreto attuativo è stato scritto «coi piedi dai consulenti di palazzo Chigi che invece parlano di ritardi burocratici», dicono. Il consulente di palazzo Chigi Marco Leonardi sosteneva che fosse «pronto da Pasqua». Ora se va bene sarà pronto «entro l’estate». Di certo servono pareri su pareri (Corte dei Conti in primis) perché lo strumento è stato costruito quanto meno in modo bizzarro: si tratta di un prestito che ha bisogno di garanzie bancarie e di assicurazioni in caso di morte del beneficiario (rischio di premorienza) che il lavoratore ripagherà in 20 anni. Il tutto per avere 3 anni e 7 mesi di anticipo. Per la richiesta serve aver compiuto 63 anni e avere 20 anni di contributi. Ma il costo è così alto – anche se così difficile da calcolare che esistono poche certezze – che scoraggerà i più: si parla di circa il 3-4 per cento annuo.

L’ULTIMO CAPITOLO È quello dei giovani. Era il primo nella piattaforma dei sindacati. Niente è stato fatto. Doveva essere la «Fase due» della trattativa. Ma anche dall’ultimo incontro di qualche giorno fa non è uscito niente. Come al solito il governo si è venduto un nuovo acronimo. Questa volta si chiama Rita: Rendita integrativa temporanea anticipata. Si tratta semplicemente della possibilità di ottenere un assegno “ponte” utilizzando già a 63 anni il montante accumulato nella previdenza integrativa. Ma i giovani iscritti alla previdenza complemetare sono pochissimi. E vedono i 63 anni come si guarda Urano.

LA PROSPETTIVA AD OGGI per i giovani è quella di andare in pensione a 70 anni, di non avere la pensione minima (la riforma Dini l’ha abolita per chi andrà in pensione col metodo contributivo) e con un assegno ridicolo. Anche il ricongiungimento gratuito dei contributi versati in enti diversi chiesto a gran voce da Tito Boeri è ancora una utopia.
Ancor di più la pensione di garanzia proposta dall’economista delle Sapienza di Roma Michele Raitano che garantirebbe un’integrazione statale per ogni anno in cui i contributi sono sotto una soglia minima. Il tutto per limitare l’aggravio sul bilancio e spostarlo oltre il 2040. L’alternativa è la proposta Damiano-Gnecchi: una nuova pensione minima per chi andrà in pensione con il solo contributivo a carico della fiscalità generale. Una «pensione di base» per tutti di 442 euro (rivalutabili), «finanziata dalla fiscalità generale», a patto di avere almeno 15 anni di contributi versati. Da sommare a quella maturata da ciascuno.

IL GOVERNO PER ORA non si sbilancia. La ragione? Forse che una misura così a lungo raggio non dà vantaggi di consenso immediati. L’unica cosa che a Renzi interessa. A costo di raccontare balle su balle.