Si sa, la materia previdenziale è ostica. Fa specie però che a sei giorni dal deposito alla camera della proposta di legge dei capogruppi di M5s e Lega (6 agosto) si diano interpretazioni così contrastanti del provvedimento che dovrà tagliare le cosiddette pensioni d’oro per aumentare quelle minime e sociali, obiettivo 780 euro (uguale al reddito di cittadinanza). In realtà il testo sul sito camera.it ieri non era disponibile ma immaginando che non sia cambiato alcuni punti fermi si possono fornire.

IL PRIMO DEI QUALI È che Francesco D’Uva e Riccardo Molinari come i loro leader Di Maio e Salvini criticano e minacciano di licenziamento Boeri ma usano le sue idee e i suoi calcoli invece che quelle di Alberto Brambilla, l’uomo del centrodestra che ha partorito il capitolo pensioni del contratto di governo e che invece propone un contributo di solidarietà su tutti gli assegni superiori ai 2mila euro lordi. L’idea di tagliare le pensioni «di privilegio» (copyright Boeri) infatti è stata lanciata nella scorsa legislatura dal presidente dell’Inps, primo fautore del ricalcolo contributivo.

METODO GIÀ APPLICATO ai deputati alla camera (col cosiddetto taglio dei vitalizi), ora sarà allargato ai pensionati con un assegno netto superiore ai 4 mila euro – ridotto rispetto ai 5 mila prima annunciati – e un reddito pensionistico annuo lordo superiore agli 80 mila euro (entrambe clausole di salvaguardia e limiti invalicabili per chi sarà penalizzato). Un allargamento che mette già in subbuglio chi pensa che aprirà alla strada al ricalcolo per tutti i pensionati, a prescindere dal loro assegno. Ma che allo stesso tempo depotenzia i già annunciati ricorsi dei deputati in pensione: la norma non varrà solo per loro.

I SEI ARTICOLI dell’Atto Camera 1071 un provvedimento che è necessariamente complicato. Il problema è risaputo: ricalcolare con il metodo contributivo la parte di pensione presa col retributivo (il metodo precedente) presuppone di conoscere il montante versato (l’insieme dei contributi) dal pensionato. Se per i parlamentari l’operazione è semplice, per alcune categorie di ex lavoratori è impossibile: i dipendenti pubblici ad esempio non hanno uno «storico» dei contributi prima della riforma Dini (1995) semplicemente perché nel pubblico col sistema retributivo la pensione era una «partita di giro»: lo stato erogava stipendi e pensioni e dunque i contributi non si pagavano.

AL PROBLEMA HA OVVIATO da tempo uno studio del famigerato Tito Boeri. Su suo impulso l’Inps ha stimato la storia contributiva delle varie classi d’età di pensionati degli anni ’70 e ’80 e i conseguenti coefficienti di trasformazione per ricalcolare gli assegni per età di decorrenza.
In pratica è stata costruita una tabella con le età di pensionamento di vecchiaia scomputate degli adeguamenti alla speranza di vita, risalendo dal 2019 fino al primo gennaio 1974. In questo modo però saranno penalizzati coloro che sono andati in pensione prima a prescindere dai contributi realmente versati. Ancor di più lo saranno coloro che avranno lasciato il lavoro per ragioni indipendenti dalla loro volontà: crisi aziendali o accordi di prepensionamento, donne che hanno dovuto accudire parenti. Tutto ciò però non significa che il ricalcolo non sia contributivo, come molti quotidiani hanno sostenuto.

GLI ASSEGNI RICALCOLATI sarebbero fra i 100 e 150mila con un risparmio per lo stato di circa 500 milioni l’anno. Mentre la legge ha durata decennale per evitare rischi di incostituzionalità.
Da parte sindacale Cgil, Cisl e Uil sono critiche e chiedono a al governo di aprire una trattativa per evitare «errori» puntando «sull’accesso flessibile».