Il 5 giugno scorso, la Corte Costituzionale ha depositato una sentenza che i media hanno ribattezzato “salvataggio delle pensioni d’oro”. Proviamo ad esaminare la pronuncia nel modo più corretto possibile senza venir meno all’esigenza di sintesi.

L’antefatto della decisione reca la firma di Giulio Tremonti e risale all’estate 2011 quando la legge 111, all’articolo 18, comma 22 bis introdusse quello che passò alle cronache come un contributo di solidarietà da prelevare, diceva il testo, a decorrere dal 1º  agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, sui “trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie” con aliquote del 5% sulle somme eccedenti i 90 mila euro lordi l’anno, il 10% sulle somme oltre i 150 mila e il 15% su quelle oltre i 200 mila.

Già nel 2012, la Consulta aveva dichiarato illegittimo il prelievo stabilito fin dal 2010 sui redditi dei dirigenti pubblici, in quanto discriminatorio con i privati. Il succo della motivazione, che è poi stata ripresa nei giorni scorsi, è che il contributo di perequazione è una tassa a tutti gli effetti e deve perciò essere imposta erga omnes e non soltanto ai pensionati. Sorvoliamo sugli esempi, come il calcolo secondo cui un reddito da lavoro di 300 mila euro lordi l’anno  finisce per pagare meno di un reddito da pensione di 150 mila. E’ vero, è formalmente iniquo ma è un argomento che, agli occhi di una pubblica opinione provata dalla crisi, brilla come la bandiera rossa davanti al toro.

Rimane il principio, sottoscrivibile.

Come si evolve a questo punto la vicenda?

Un gruppo di magistrati in pensione (ordinari, amministrativi, militari, della corte dei conti) ricorre presso le rispettive sedi, in questo caso la Campania e il Lazio e solleva il dubbio di costituzionalità. E’ noto che i magistrati registrano elevati compensi e perciò elevati assegni di previdenza. Ad essi si aggregano anche due ex avvocati dello stato. E’ del tutto irrilevante che il tema sia stato trattato davanti a una corte di giudici di una certa età, molti dei quali già titolari di pensioni, relatore lo stimabilissimo ex accademico ed ex garante della concorrenza Giuseppe Tesauro, classe 1942, perché di Corte Costituzionale ce n’è una sola.

Il ricorso sottolineava la disparità di trattamento fra pensionati pubblici e privati in violazione degli articoli 3 e 53 della massima carta. In realtà, la motivazione è incongrua, come ha mostrato un’ottima Gabriella Palmieri, rappresentante dello stato in udienza, che ha rilevato come la legge 111/2011 parli di previdenza obbligatoria, non solo pubblica, pertanto riguardi quasi tutti i pensionati privati, certamente quelli Inps. Palmieri ha difeso l’indifendibile (ovvero uno stato incapace di studiare norme che non siano incostituzionali), ma non ce l’ha fatta ugualmente.

La corte alla fine ha deciso che in effetti la disparità comunque c’è, con i cittadini non pensionati.

Che dire? La questione andrebbe affrontata tralasciando sia le sparate ideologiche estreme sia i formalismi altrettanto estremi, ma con la certezza del diritto e il buon senso politico. Se non è possibile ridurre le pensioni scandalosamente alte e perdipiù frutto dell’iniquo sistema retributivo – via auspicabile ma a quanto pare impraticabile – le si sottoponga a tassazione insieme ai redditi del medesimo importo, magari stabilendo che il ricavo vada nelle casse dell’Inps (peraltro bisognose) anziché in quelle dell’erario.

Una cosa è sicura: adesso, il contributo andrà azzerato, con perdite per le entrate pubbliche. Altrettanto sicura è la triste conferma che né Tremonti né il suo successore Monti, il tecnico, sono stati in grado di scrivere una norma che superasse le forche caudine del controllo di costituzionalità. E se si cominciasse a far pagare i danni a chi li  ha provocati, ad esempio a quei dirigenti pubblici profumatamente retribuiti che, complice il diritto, sono riusciti a scansare la solidarietà?