Reduce dallo scorso Festival di Locarno, in questi giorni è in sala Menocchio di Alberto Fasulo: certo non la distribuzione capillare, fulminea che regola l’uscita di certi prodotti cinematografici, come dire, di consumo, ma una diffusione del film ponderata, procrastinata, anche perché il contenuto di Menocchio e la sua forma così peculiare, la sua forza di irradiazione concettuale, teorica, non si esauriscono nel breve tempo, ma perdurano; sono ricchezza di pensiero, di rappresentazione, che non va sprecata, bruciata nel giro di un finesettimana.

LA LUCE appunto, è la polarità verso cui si protende tutto il film (scaturendo al bianco finale), già dai titoli di testa, irraggiati grazie al barbaglio di candele nell’oscurità: questa volontà di rischiarare lo spazio per posarvisi, addentrarvisi in simbiosi con la materia, di guardare con occhi cerulei il respiro dell’aria nei pochi momenti in cui Domenico Scandella esce dalla catabasi a cui è costretto, sorprendendo un’esclamazione di rondini. Menocchio è il frutto di un oscillare, di un andirivieni tra luce e oscurità (ovviamente anche a livello metaforico: pensiero e oscurantismo), tra carcere sotterraneo – dove il mugnaio è sepolto e subisce la repressione ecclesiastica, il «no» elevato a teoria, senza poter parlare, scrivere, guardare, ecc. – e livello emerso della terra, come quando osserva la corsa di un bambino sul greto di un corso d’acqua, che non si sa se reale o immaginario, in quella che è la scena più commovente di un film invece come pudicamente chiuso nel proprio riserbo formale. Una claustrofobia che, a parte l’ambientazione sommersa, è proprio stilistica, perché raramente Fasulo distoglie lo sguardo dagli uomini, dai loro corpi, soprattutto dai volti; quello scavato, antico di uno stupefacente e stupefatto Marcello Martini, spaesato di fronte all’ottusità dei notabili, che è ottusità e prevaricazione politica, ancor prima che dottrinale: «Dio vuole i poveri e i ricchi?» esclama Menocchio in uno degli illuminanti e illuminati interrogatori, quando finalmente l’uomo è stato riportato in superficie. E l’affioramento, dopo l’oppressione del buio, è breve tripudio sonoro oltre che luminoso: il sibilo dell’atmosfera, il chiaro sentore di rondini, a fare da ritornello a un motivo greve, intransigente.

È PROPRIO ciò che si potrebbe rimproverare a Fasulo: questa severità, questo soffocante stare addosso ai personaggi, senza offrire spiragli, una via di scampo più duratura che sia proprio lì, in superficie, di là dalle grate, tra l’erba e il greto, nell’aprirsi iconografico di vie di fuga, slarghi, voli cinematografici. Ma si tratta del programma coerente di un regista che, al pari del suo personaggio, osserva il mondo, e ha fatto della documentazione, della frontalità dell’interrogare – quando non è interrogatorio –, del materializzarsi refrattario e spontaneo dell’evento umano, la propria poetica e politica. Scegliendo la strada di questa forma impervia, Fasulo si discosta da certi tratti un po’ manierati del Giordano Bruno di Montaldo, che potrebbe essere considerato una sorta di precorrimento di Menocchio perché ambientato nello stesso territorio (la Repubblica di Venezia) e negli stessi anni, se si pensa che Scardicchia fu arso vivo nel 1599 e Bruno nel 1600. Ma ne condivide la messa in scena dell’inquisizione, la pragmatica del processo, grazie alla quale capovolge la posizione dei personaggi nel consesso, trasformando Menocchio da accusato in accusatore, critico, anche in modo stentoreo, lirico, verso la pantomima del potere, proprio come Bruno nel film di Montaldo. La prospettiva del mugnaio (e di Fasulo) è terranea, basica, punto di vista alternativo da cui guardare la Storia: parte dall’osservazione minuta dell’immanenza e non, come in Bruno, dallo studio, dalla speculazione filosofica più profondante che poi si apre a intuizioni figurali, cosmogoniche straordinarie.

PRENDE forma dall’alveo del formaggio che vermina, anziché dal rutilare del cosmo; eppure entrambe, prendendo di mira il potere e il corollario di perversioni, soprusi, oscurità che lo circonda, evocano un’ideologia libera e la pongono al centro dell’esperienza umana. È il disegno di un paradiso che è qui e ora, «ogni giorno, quando vediamo i bambini correre, quando c’è il vento gelido, quando c’è il sole», dice Menocchio, che è, alla fine, disposizione di trepidi significanti nello spazio: scenario, sequenza, fuori campo.