Capaci di svegliare le coscienze inglesi intorpidite da (troppi) anni di egemonia melodica Smiths, nei primissimi anni ’90 gli Suede, fin dal nome che indica la pelle scamosciata, offrivano un’alternativa, anche stilistica nel senso più letterale, alla flanella di grana grossa del grunge americano, coniugando l’amore per il glam del David Bowie di Alladin Sane, anche nella voce da crooner teatrale di Brett Anderson, ai balletti meccanici e punk dei Killing Joke, eredità dichiarata anche nel penultimo disco Bloodsports che riprende nel titolo un brano della band londinese.

Anni di Britpop, copertine di NME, liti a mezzo stampa fra membri del gruppo, tastieriste cacciate per un flirt con il nemico di classifica Damon Albarn (l’indimenticata Justine Frischmann che poi fondò le Elastica) senza accorgersi che la vera nemesi di Anderson e compagni non era altro che l’ossessione di affondare i loro riff nella storia musicale britannica, fino a debordare nel glam-pop gonfiato dei dischi successivi. Dopo un decennio di soliste autodistruzioni, il ritorno della band inglese è «nuovamente» nel solco di Bowie e dell’enfasi melodrammatica della chitarre di un immaginario Bernard Butler, lontano dal gruppo ormai da vent’anni ma sempre presente nel disperato romanticismo delle sue antiche chitarre, e le tracce del nuovo album, Night Thoughts uscito lo scorso 22 gennaio, non fanno eccezione, scandendo questa sorta di concept album, immaginato come una concatenazione di istantanee di vita di un uomo mentre sta affogando in un lago (fa fede il film che accompagna l’edizione deluxe del disco, diretto da Roger Sargent, già autore di un bellissimo documentario sui The Libertines).

«È un disco militante, è la nostra reazione a chi dice che l’album è morto quando in realtà i 18enni di oggi comprano di nuovo i vinili per dedicare il giusto impegno all’importanza dell’ascolto» ha dichiarato Brett Anderson e non è un caso che queste nuove canzoni, intrise di angosciante dipendenza dai moti del desiderio, siano innervate da orchestrazioni solenni fin dalla prima traccia, When You are Young. Le dodici canzoni scivolano così, tra archi e trasfusioni ritmiche, tra echi del loro Dog Man Star del 1994 e ballate per pianoforte senza tempo come la conclusiva The Fur & The Feathers con la costante melodrammatica dei testi di Anderson, oscillanti fra scene da romanzo noir e lettere d’amore di inevitabile fallimento.

Incuranti del rischio di «suonare» sempre uguali a loro stessi, Anderson e soci non sembrano affogare, come la ragazza nella splendida copertina del disco, nel loro sound barocco, anzi, restituiscono vita a una «missione» musicale, a un’esaltazione di melodismo che, con pathos quasi religioso e forte di un nutrito gruppo di fan ancora adoranti, cocciutamente non vuole adeguarsi alle dinamiche del pop usa e getta.