Dalla finestra del nuovo ufficio del Festival dei Diritti Umani si vede un giardino. Un giardino come può esistere a Milano d’inverno: erba a sprazzi, un paio di alberi spogli, una siepe di ligustro e … tanti parrocchetti verdi. Gli ornitologi spiegheranno che non c’è nulla di strano, che le prime segnalazioni di questi uccelli sudamericani sotto la Madonnina sono della fine ‘800, quando furono liberati per diletto. Difficile credere che i pappagalli svolazzanti davanti alla nostra sede siano i loro pronipoti. Quelli che vediamo ora stanno discretamente: grazie al cambiamento climatico e al sistema consumistico trovano riparo dal freddo e cibo, quello sprecato dagli uomini.

Se dalla zoologia passiamo all’antropologia, la morale non cambia: le città sono abitate da moltitudini di persone che le hanno scelte o ne sono rimaste involontarie prigioniere. A volte sono le loro mete finali, a volte sono passaggi. Campano, più che viverci. Molti di loro sono fuggiti dalla siccità, si sono allontanati perché il mare ha invaso le loro case, altri sono stati sfrattati dall’agroindustria o sono scappati dai veleni usati per estrarre materie prime. Sono i profughi ambientali. Non riconosciuti come bisognosi di protezione da nessuna nazione, Europa compresa. Sono sull’ordine delle decine di milioni. Non c’è un continente che ne sia esente: indios delle foreste dell’Amazzonia, pastori nomadi del lago Ciad, perfino in Europa, più ti avvicini all’Artico e più tocchi con mano gli effetti dell’impazzimento climatico.

Gli scienziati, pur accapigliandosi, sono abbastanza sicuri di saper prevedere cosa accadrà se la temperatura media aumenta di 2°, ma non sanno cosa aspettarsi se il termometro salirà ancora di più. Gli scenari apocalittici non smuovono l’inerzia di una società sazia: «Cresce – ci ha spiegato Paolo Anselmi, vicepresidente di GFK Eurisko – la preoccupazione: il 70% degli intervistati ha paura dei cambiamenti climatici ma i nostri sondaggi non rilevano l’intenzione di cambiare gli stili di vita». Preferiscono – aggiungiamo noi – inveire contro i migranti piuttosto che domandarsi se il nostro modo di produrre li ha affamati e costretti alla fuga.

Il Festival dei Diritti Umani (fino 24 marzo, alla Triennale di Milano) intende connettere questi filoni di ragionamento: non si può difendere l’habitat della comunità indigena se non cambia il sistema di produzione qui in Occidente; non si può pensare di liberare le città dallo smog se non partiamo dai nostri comportamenti; non si può fingere che la schiavitù moderna sia solo quella delle coltivazioni estensive del Sud del mondo…

Forse è un po’ démodé, ma continuiamo a pensare che attraverso un uso equilibrato di emotività e ragionamento, di utopia e «buone pratiche», le persone siano ancora in grado di mobilitarsi per cambiare lo stato delle cose. Ed è così che abbiamo costruito il Festival dei Diritti Umani: documentari e film per sognare e arrabbiarsi; testimonianze e lectio magistralis per conoscere e passare all’azione. Per 5 giorni, mattina e sera. Gratis.

Dedicheremo la terza edizione alla Terra: come incide sui diritti umani la devastazione a cui sottoponiamo il pianeta? «Una. Per tutti. Non per pochi» è il titolo scelto per dire che la responsabilità di quanto sta accadendo è di quei pochi che pensano di poter monopolizzare l’acqua o inquinarla, che si arrogano il diritto di sfruttare i beni comuni, che sponsorizzano il consumismo. Parole e concetti totalmente assenti nella politica. Male, ma siamo abituati ad andare controcorrente.

* direttore Del Festival dei Diritti umani