Guardare il mondo con gli occhi degli «ultimi», i paesi più «poveri» del pianeta, quelli che gli indicatori economici e sociali e le statistiche internazionali collocano in fondo alla classifica. L’iniziativa «The Last 20» è il risultato della costruzione di un percorso alternativo per far emergere i problemi, le speranze, le istanze sociali, le lotte dei paesi impoveriti a causa di sfruttamento coloniale, guerre e conflitti etnici, catastrofi climatiche.

Il primo incontro si è tenuto a Reggio Calabria dal 22 al 25 luglio, negli stessi giorni in cui a Napoli era in corso la passerella del G20 su ambiente, clima ed energia. Da una parte la voce dei rappresentanti dei paesi che stanno pagando il prezzo più alto per i cambiamenti climatici, dall’altra i 20 paesi più industrializzati che producono il 90% del Pil mondiale e l’85% dei gas serra.
Se a Reggio Calabria erano stati i temi dell’immigrazione e dell’accoglienza ad essere affrontati, nelle successive tappe che hanno toccato Roma e Abruzzo e Molise, il confronto si è sviluppato su fame, insicurezza alimentare, mala agricoltura e sui temi della pace e del disarmo. Dal 24 al 27 settembre è stata Milano ad ospitare gli incontri degli «ultimi» 20 per analizzare due grandi questioni: l’impatto che il mutamento climatico ha sulle popolazioni dei paesi più fragili e la salute come bene comune globale.

L’aggravamento della situazione sanitaria a causa del Covid impone più che mai di considerare la salute un bene primario su cui concentrare investimenti, aiuto internazionale, cooperazione. Con l’invocazione a sospendere i brevetti per salvare migliaia di vite in Africa, Asia, America latina e aumentare la nostra stessa sicurezza.

In Africa, dove si concentra il maggior numero di paesi impoveriti, solo il 2% della popolazione ha avuto accesso al vaccino. Sul fronte climatico c’è stata la testimonianza di Sayed Hasnais, afgano di Unire (Unione nazionale rifugiati ed esuli), che ha evidenziato il fenomeno crescente della desertificazione e i conflitti sempre più acuti per accedere alle fonti d’acqua.

«Le guerre supportano il cambiamento climatico che, a sua volta, alimenta i conflitti», ha affermato. Il divario intollerabile che si è prodotto con i paesi «arricchiti» non può essere ignorato negli incontri di preparazione alla Cop 26 (conferenza mondiale sul cambiamento climatico) che si terranno in questi giorni nel capoluogo lombardo, in vista del vertice di Glasgow dall’1 al 12 novembre.

Afghanistan, Burkina Faso, Burundi, Repubblica Centrafricana, Ciad, Repubblica democratica del Congo, Eritrea, Etiopia, Gambia, Guinea Bissau, Haiti, Libano, Liberia, Malawi, Mali, Mozambico, Niger, Sierra Leone, Somalia, Sud Sudan, Yemen sono paesi di cui si parla soprattutto per le emergenze che devono affrontare, più che per il loro patrimonio naturalistico e culturale.

Tonino Perna, coordinatore del comitato «The Last 20», ha più volte sostenuto che «è necessario affrontare le sfide planetarie partendo dalla prospettiva dei paesi impoveriti, perché il pianeta va visto come un organismo vivente e bisogna misurare la temperatura sociale, economica e ambientale nelle sue parti più fragili».

Il prossimo appuntamento si svolgerà a fine ottobre a Santa Maria di Leuca, ultima tappa di questo meeting itinerante, dove verrà presentato un documento finale. Ma questa esperienza non si esaurisce. Verrà costituito un osservatorio permanente che, sulla base di indicatori sociali, economici e ambientali e con la collaborazione di organismi locali, produrrà un report annuale per monitorare nel tempo la situazione degli «ultimi» 20 e per evidenziare quei percorsi che possono favorire nuove dinamiche di autosviluppo