Una delle notizie più recenti che ha gettato nel panico gli investitori di moneta digitale è stato il crollo degli NFT (Non-fungible token): pare che il 95% delle opere abbiano perso valore e non si capisce se si tratti solo di una battuta d’arresto per fare pulizia tra arte e immondizia, oppure la bolla è scoppiata definitivamente.

Sicuramente le criptovalute stanno attraversando un momento difficile pur rappresentando l’economia del futuro. Resiste invece il fenomeno del metaverso su cui Mark Zuckenberg ha puntato tutto, rinominando Meta il cappello sotto il quale mettere i suoi social Facebook, Instagram e Whatsapp.

Infine, dopo l’exploit un anno fa della ChatGPT, prima salutata con entusiasmo e poi con angoscia per i pericoli che comporterebbe, il dibattito sull’intelligenza artificiale tiene banco quotidianamente sui media e nella vita pubblica per le ricadute che sta avendo a tutti i livelli, a cominciare dal mondo del lavoro.

Tra saggi, articoli, convegni, festival, rassegne, serie tv (Black Mirror resta una delle migliori seppure orientata sulla tecnologia vista in chiave distopica) si moltiplicano a dismisura le occasioni per fare il punto sulla situazione e immaginare nuove prospettive. All’orizzonte, intanto, si profila la tecnologia del Web3 e poi del 5G e 6G, che costituiscono sistemi di connessione alla rete ancor più efficienti e capillari, supportando maggiormente il cosiddetto IoT (Internet of Things) che dominerà le nostre esistenze, ma anche piattaforme di nuova generazione sempre più complesse e partecipate.

Quelle cui abbiamo appena accennato sono solo alcune delle questioni da affrontare e approfondire, con un’attenzione particolare al mondo delle arti, ormai dominato da tre parole chiave: virtualità, immersività e interazione. In che modo le nuove tecnologie e i dispositivi digitali influiscono sull’universo della creatività? Sono davvero in grado di sostituire gli artisti? Sabato scorso su Alias abbiamo pubblicato l’intervento di un musicista come Miller S. Puckette, che domandandosi se i computer possano fare musica, arrivava a una conclusione molto semplice: la tecnologia non fa le veci dell’artista, ma lo aiuta a potenziare gli strumenti a sua disposizione per creare opere.

Igor Imhoff

Tra mostre con installazioni interattive, esperienze di AR, VR e XR, realtà virtuale, aumentata e mista, ecc. il campo della Media Art e della AI Art si estende sempre più, per districarsi in questo universo variegato e in continua trasformazione ci vengono per fortuna in soccorso alcune recenti pubblicazioni.

Quando negli anni ’60 Umberto Eco coniò la famosa distinzione tra «apocalittici» e «integrati» a proposito dell’industria culturale e dei mezzi di comunicazione di massa, voleva contrapporre due diverse scuole di pensiero che, volendo, possiamo applicare anche oggi alla discussione sulle nuove tecnologie. Da un lato abbiamo i catastrofisti che vedono nello sviluppo dell’AI un danno per l’uomo, a cominciare dalla scomparsa di alcune figure nel mondo del lavoro o dall’appiattimento della creatività, dall’altro gli ottimisti e spesso esaltati difensori delle innovazioni scientifiche che ne scorgono solo i vantaggi. Il dibattito è aperto.

Nel volume Il mito dell’intelligenza artificiale, pubblicato da Franco Angeli nel 2022, Erik J. Larson ricostruendo le tappe evolutive della AI a partire dalla macchina di Turing, ci mette in guardia dal mitizzare questa area scientifica che si interfaccia ormai con le neuroscienze e prelude alla creazione di una «superintelligenza», orizzonte ancora imperscrutabile.

Del resto la sfida maggiore della scienza resta svelare tutti i misteri del cervello umano prima ancora di sviluppare le infinite potenzialità del cervello artificiale. L’informatico-imprenditore (ha creato due start-up finanziate dal ministero della difesa statunitense per l’AI), insiste sul fatto che il vero salto in questo campo avverrà quando sarà scoperto un algoritmo per l’intelligenza artificiale generale (vale a dire un robot che legge un giornale o sostiene una conversazione) e non per le applicazioni specifiche (come quelle che riguardano il riconoscimento delle immagini).

È un dato di fatto che negli ultimi sette anni c’è stata una netta accelerazione in questo campo. Anno di svolta il 2016, quando AlphaGo ha sconfitto il campione (umano) del Go, gioco da tavolo più complesso degli scacchi. Lo scrive il taiwanese Kai-Fu Lee (co-presidente del consiglio per l’AI del World Economic Forum) che, insieme allo scrittore cinese di fantascienza Chen Qiufan, è autore di AI 2041. Scenari dal futuro dell’intelligenza artificiale (Luiss University Press, 2023), fusione di saggistica e narrativa, ovvero 10 racconti seguiti da analisi dettagliate su numerosisssimi temi quali: deep Learning, big data, reti neurali, deepfake, robotica, digitalizzazione del lavoro, della sanità, bitcoin, computer quantistico, ecc.

Il volume di oltre 400 pagine non si ferma al presente, ma cerca appunto di delineare gli scenari venturi, con una certa dose di ottimismo: per esempio l’AI creerà ricchezza globale (15,7 migliaia di miliardi entro il 2030) in grado di ridurre fame e povertà. Sarà poi così vero?

L’idea del metaverso non è certo nata oggi, ma ha una sua lunga storia, se pensiamo che ambienti immersivi e partecipativi li incontriamo in diverse fasi della storia delle arti. Un precedente resta sicuramente Second Life, mondo virtuale da abitare attraverso avatar che viene lanciato vent’anni fa e che subisce un inevitabile declino (ma in realtà esiste ancora ed è popolato da oltre mezzo milione di utenti).

Nel suo libro appena uscito, La zona oscura. Filosofia del Metaverso (Luiss University Press, 2023), Simone Arcagni sottolinea come il metaverso attuale è strettamente connesso al mondo del gaming e alla cosiddetta «logica Unity», ovvero il motore grafico più usato per realizzare videogiochi come Fortnite, uscito nel 2019. Nella sua sintetica e utilissima analisi, lo studioso elenca poi le peculiarità del metaverso, le varie riflessioni teoriche che accompagnano questo nuovo mondo e le sue molteplici implicazioni: dalla ridefinizione degli stessi concetti ontologici di «reale» e di «realismo», alla «zona oscura» ovvero lo spazio invisibile che sostanzia il metaverso (il cloud, ad esempio, visto come nuovo supermedium), fino alla distinzione tra metaverso e multiverso.

Mentre quest’ultimo è la «situazione in cui convivono molti metaversi proprietari, ognuno con proprie regole specifiche», il metaverso vero e proprio va inteso come «l’orizzonte tecnologico in cui questi ambienti saranno collegati attraverso una serie di sistemi che chiamiamo interoperabilità». Questa logica è fondamentale per evitare che ognuno agisca nel proprio mondo concluso, senza così aver accesso agli altri mondi paralleli e confinanti.

Personalmente ho provato un paio di anni fa a entrare in un metaverso nella sezione VR della Mostra del cinema di Venezia, interagendo con alcuni ragazzini americani, da «boomer» quale sono ho provato a far loro domande sull’iconografia in CGI scelta per creare quell’ambiente immersivo, cercando di ottenere invano risposte da utenti che erano interessati a un dialogo superficiale. Se il metaverso non si riempie di contenuti culturali e artistici di un certo livello, come del resto le VR o AR Experience, rischia di restare un giochino fine a se stesso, un videogame partecipativo ma sterile. Le nuove tecnologie vanno insomma adoperate non solo nel campo – concettualmente e stilisticamente limitato – dell’intrattenimento mainstream, ma anche in quello della sperimentazione.

Fabio Massimo Iaquone, 2022

La prima opera d’arte immessa sul mercato creata dall’AI – e, nello specifico, dalla Generative Adversial Network (GAN) – è stata il ritratto Edmond De Bellamy, battuta all’asta nel 2018 da Christie’s.

L’anno seguente Mario Klingemann – artista che ha coniato la «neurography»mix di Photography e neural network – vende attraverso Sotheby’s un’altra opera, Memories of Passerby. Queste due tappe fondamentali vengono riportate da Alice Barale nell’introduzione al prezioso volume da lei curato per Jaka Book nel 2020 Arte e intelligenza artificiale, con contributi critici tra gli altri di Castelle, Ridler e Mazzone.

Ma cosa vuol dire che l’opera è stata realizzata dalla AI? Non significa che il creatore si è limitato a usare un software, «ma che vi sia almeno una parte del processo che sfugga all’artista e venga delegato alla macchina». L’artista insomma immette nel computer immagini, suoni e parole per scoprire come saranno elaborati.

La GAN arriva anche a imitare gli errori e le imperfezioni, tanto da spingere poi lo stesso artista a modificarli. L’arte cosiddetta «generativa», messa a punto da Ian Goodfellow nel 2014, consiste in due reti neurali che giocano l’una contro l’altra: la prima parte da alcuni dati, la seconda ne produce di nuovi a imitazione degli altri. Da questo nuovo modo di fare arte interagendo con la macchina, nasce la legittima preoccupazione di sentirsi espropriato della propria creatività, ma la macchina può e deve essere vista come un amplificatore delle potenzialità e degli stilemi già insiti nel creatore.

C’è poi il problema opposto: se il dataset da cui partire per la creazione è troppo preciso e ordinato (è il caso del gruppo artistico Obvious), i risultati saranno prevedibili, mentre il fattore random risulta decisivo per consentire al software di «auto-organizzarsi».

Le GAN possono attingere a uno sterminato database, a cominciare da quello della storia dell’arte, producendo infinite ricombinazioni con risultati inaspettati. Non c’è nulla di nuovo: l’arte di riappropriazione, il found-footage, il remix, ecc. sono tutte pratiche consolidate da decenni, ma la macchina va oltre il semplice assemblaggio, creando dei Frankenstein digitali sorprendenti. Resta la questione della proprietà dell’opera, che spalanca anche questioni di plagio, diritti d’autore, ecc.

Naturalmente il rapporto tra arte e intelligenza artificiale si realizza in molti casi anche in tempo reale: pensiamo alle proiezioni video durante i live o nelle installazioni interattive in cui partecipa direttamente il pubblico. Una parte è prestabilita dal creatore (che in molti casi è anche informatico e si scrive il software da solo), un’altra componente può più o meno essere casuale e viene sviluppata dalla macchina in progress.

Sono tanti i videomaker che in Italia lavorano in questo modo, tra essi nel campo della sperimentazione video citiamo ad esempio Fabio Iaquone, Francesca Fini, Davide Pepe, Loredana Antonelli e tantissimi altri. Igor Imhoff – che di recente ha realizzato un progetto per Terna dal titolo Ti ricordi quando eri piccolo e sei stato sulla luna? creando una narrazione fotografica attraverso foto elaborate dalla AI – afferma: «Da parte mia ho cercato di capire come ragiona la macchina, quasi fosse un’altra specie vivente, imparando che per ottenere quanto desiderato, bisogna sviluppare una vera e propria pipeline, dalle immagini di partenza al risultato finale, muovendosi tra algoritmi e software”.

In un altro volume edito sempre da Jaka Book, Futuri possibili. Scenari d’arte e intelligenza artificiale, Rebecca Pedrazzi approfondisce – oltre a Klingemann – l’estetica dell’AI di altri artisti come Memo Atken (altra star del settore) e Helena Sarin, o gli italiani Mauro Martino e Sofia Crespo. E, tra le altre cose, si occupa di come il mercato dell’arte abbia recepito le nuove trasformazioni legate a NFT, Blockchain, ecc., delle nuove frontiere per la catalogazione delle opere, delle tecnologie di fruizione impiegate nei musei e, infine, dei metodi di conservazione delle opere realizzate con l’AI.

Va in un’altra direzione, esplorando arte, design, corpo e neuroscienze, il nuovo libro di Marco Mancuso, tra i maggiori esperti di Media Art nel nostro paese, intitolato Chimera. Il corpo espanso per una nuova ecosofia dell’arte (Mimesis).

Il post-umano e il transumanesimo non sono fenomeni nuovi, eppure alla luce degli ultimissimi sviluppi tecnologici acquistano sempre nuovi significati e conoscono nuove applicazioni.
L’autore cerca in 10 capitoli di affrontare a 360° il tema, dedicando naturalmente ampio spazio ad artisti e designer che mettono al centro della loro ricerca il rapporto con l’ambiente. Tra di essi: Heather Dewey-Hagborg, Marco Donnarumma, Sputniko!, Margherita Pevere, Neil Harbisson e Anouk Wipprecht.

Nel suo libro, inoltre, Mancuso passa in rassegna alcuni dei principali eventi e mostre internazionali degli ultimi anni, diventate imprescindibili per l’interfaccia arte-corpo-tecnologia: da Body of Matter organizzata dal MU Hybrid Art House di Eindhoven nel 2015-16 a I’m here to learn: On Machinic Interpretations of the World, allestita nel 2018 al Frankfurter Kunstverein, dalla collettiva AI: More Than Human tenutasi nel 2019 presso il Barbican Centre di Londra. «La prima – ricorda lo studioso – focalizzata sulle modalità con cui le IA fanno esperienza del mondo e su come possono sviluppare processi di interpretazione della realtà secondo modelli quanto più simili possibile agli esseri umani.

La seconda, incentrata più in generale sulla relazione tra esseri umani e tecnologia nell’era delle Intelligenze Artificiali». Infine Future and the Arts: AI, Robotics, Cities, Life – How Humanity Will Live Tomorrow, organizzata dal Mori Art Museum di Tokyo, tra 2019 e il 2020, riflessione sui prossimi 20-30 anni all’insegna dell’AI, robotica, neuroscienze e biotecnologie.

In un panorama dell’arte e dell’intrattenimento così rinnovato tecnologicamente e che ci offre un catalogo infinito di opzioni, spingendoci a interagire con le macchine e a costruirci il nostro dataset o il nostro palinsesto personalizzato, aumenta o invece paradossalmente diminuisce la nostra libertà di scelta? A proposito dell’archivio di Google o delle smart tv come Netflix, osserva sempre Arcagni nel suo volume sul Metaverso: da un lato «attirano con la vastità del loro database, ma poi provano a far concordare le nostre scelte limitando il campo di azione e facendolo ruotare intorno a pochi elementi». Il risultato è «una sorta di appiattimento linguistico che delimita il campo dell’audiovisivo a pochi elementi narrativi e visivi riconducibili a quelli più visitati, ammirati e fruiti. La varietà delle piattaforme a ben osservare denota una povertà di scelte e nelle produzioni originali anche una povertà linguistica e produttiva che schiaccia le differenze, che espunge soluzioni alternative».

E allora, in conclusione, il problema è sempre lo stesso da secoli. Il pericolo della standardizzazione, dell’omologazione, della moda. Umana o artificiale, tecnologica o artigianale, analogica o digitale che sia, la creazione artistica è legata pur sempre a un discorso innovativo e sperimentale, che sappia parlare della realtà che ci circonda e che sappia comunicare agli altri. Prima ancora di «espansione» in termini di interfacce mediali o di reti neurali, dovremmo preoccuparci – come ci ha insegnato Gene Youngblood – di coltivare un’arte che possa espandere le nostre coscienze.