Aveva ragione Manfredo Tafuri a dire che il disegno di architettura è un «oggetto ambiguo» o addirittura «perverso», vuoi perché a volte tende a modificare la lettura dell’opera realizzata consentendo la possibilità di reinterpretarla, vuoi perché spesso la completa come se «da sola non parlasse sufficientemente». Sono questi i motivi che lo convinsero a considerarli alla stregua di «tracce archeologiche»: svelano misteri, interpretano luoghi, tracciano relazioni; pertanto sono «strumenti storiografici raffinati» da sempre indispensabili allo storico.
I disegni di Giovanni Michelucci, in particolare, conservati nell’omonimo Centro di Documentazione di Pistoia, sono un’eccellente occasione per comprendere il significato di una pratica che in anni recenti ha perso progressivamente importanza, o meglio assunto altri contenuti e intenzioni, ma che invece, una o due generazioni fa, servì agli architetti per conoscere e pensare l’abitare e la città. Tuttavia non è solo il confronto con l’omologante e differente mondo della rappresentazione digitale, che rende i disegni dell’architetto toscano così interessanti ora che la Fondazione Michelucci, in collaborazione con il sopra menzionato centro, ha ripreso a ripubblicarne il corpus. Con il secondo volume, Giovanni Michelucci. Disegni dal 1965 ai primi anni Ottanta (Settegiorni editore, Pistoia, a cura di Andrea Aleardi e Nadia Musumeci, pp. 303, € 40,00) prosegue così il progetto editoriale, dopo la prima raccolta compresa tra il 1935 e il 1964 (Diabasis, 2002), e in attesa del terzo volume dei disegni degli ultimi dieci anni.
Ora è naturale riaffermare che per Michelucci il disegno è parte indissolubile del fare architettonico in continuità con la prassi di coloro che dall’«età umanistica» l’hanno preceduto e in modo analogo all’uso che ancora ne faranno i moderni. In particolare, quando parliamo dei disegni del maestro toscano né si tratta di quelli convenzionali della rappresentazione in scala, di carattere tecnico, né di quelli necessari a comunicare con il committente o con gli esecutori materiali dell’opera. A questi ultimi si potrebbe rinviare per le vedute prospettiche del progetto fiorentino non realizzato del mercato coperto in piazza dei Giudici (1935): tra i pochi sopravvissuti fra gli anni Trenta e Quaranta. Mentre tutti gli altri – i disegni del secondo dopoguerra – si connotano quali schizzi per fissare in maniera istantanea un’idea. Giovanni Klaus Koening li definì «polisignificanti», ma più in dettaglio, nella loro esecuzione veloce e insistita del tratto di penna a inchiostro o pennarello, nello scandaglio da diversi punti di osservazione dello stesso tema spaziale, nella marginale importanza data al supporto, vi riconobbe un modo di «stabilire una comunicazione interpersonale, come un discorso fra sé e sé».
Negli schizzi di Michelucci non si può scorgere né «bella forma» né «potere comunicativo», quest’ultimo inteso come capacità di persuasione e informazione. I disegni misurano piuttosto «uno scarto – come sottolineò lo stesso architetto – tra ciò che si sarebbe voluto fare e ciò che si è potuto fare». È proprio questo «coefficiente di irrealizzabilità» che ci costringe a guardarli nella loro «valenza documentaria indipendente» (Musumeci), nella loro totale autonomia. Se prendiamo, ad esempio, i progetti (non realizzati) agenti sulla scala urbana e paesaggistica come il quartiere di Santa Croce a Firenze (1967-’68), da riqualificare dopo l’alluvione del 1966, o lo stabilimento termale a Massa (1978-’85), ideato come un «villaggio di servizi integrati» immerso nell’ambiente collinare, includendo le numerose vedute, assonometrie e sezioni urbane della raccolta Elementi di città (1968-’80), Michelucci non mostra mai l’intenzione di «indicare precocemente delle forme», piuttosto indaga con ostinazione alcuni temi che gli suggeriscono la storia e la natura, individuando quelle relazioni tra le parti del progetto necessarie per favorire la socialità e mitigare così i conflitti.
Anche con l’incarico per la chiesa di San Miniato nella periferia di Siena è còlta l’occasione per pensare non solo un edificio sacro, ma un intero brano di città. Spazi collettivi, anfiteatro e percorsi coperti per la comunità del quartiere sono gli ingredienti per significare la periferia. La certezza, per Michelucci, è che le aree periurbane si riscattano con idee coraggiose e forti come dimostra l’ultima versione della chiesa: un veliero in cemento armato incagliato nel suolo senese. D’altronde «l’irrazionale per l’irrazionale», come scriverà in basso a uno schizzo dove l’intricato avvolgersi delle linee trasporta un semplice spazio per il culto concepito per un aeroporto (Le cento chiese, 1979-’80) nel mondo del fiabesco o dell’onirico, è un’asserzione che mostra tutta l’importanza che Michelucci assegna alla dimensione immaginifica e utopica del confronto dell’architettura con «La Nuova Città».
Questo proiettarsi verso l’altro da sé non è mai, però, da intendere come volontà di estraniarsi dal contesto, perché «le strutture architettoniche nascono seguendo la configurazione morfologica dei luoghi». Altrettanto si può dire sull’autoreferenzialità dell’architetto che «dimentica il mondo» rivolto con il pensiero al solo oggetto che deve costruire: «quando sarà ultimato, sarà mondo a se stesso ed escluderà un rapporto vivificante col mondo nel quale pure è inserito». I disegni di Michelucci contengono questa moltitudine di pensieri, per questo non si smette mai di ammirarli e di riflettere.