]indiscrezione filtrata nella giornata di ieri sull’Hindustan Times, secondo cui gli inquirenti indiani sarebbero pronti a chiedere la pena di morte per i due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, ha riportato in Italia lo spettro di un esito drammatico ora che l’apertura del processo in India sembra davvero imminente. Una preoccupazione immotivata, figlia di un’interpretazione frettolosa delle notizie indiane mista a una scarsa conoscenza del contesto giuridico, estremamente complesso, entro il quale si muove il caso Enrica Lexie.
Nella serata di ieri ambienti istituzionali indiani hanno rassicurato nuovamente l’Italia circa l’inapplicabilità della pena di morte nel caso che vede imputati dell’omicidio di Ajesh Binki e Valentine Jelastine – due pescatori a bordo del peschereccio St. Anthony – i due sottufficiali del battaglione San Marco in servizio antipirateria nel febbraio 2012 sulla petroliera italiana Enrica Lexie. Staffan De Mistura, inviato speciale del governo che ha gestito in prima persona la vicenda diplomatica dei due fucilieri di Marina in India, in un’intervista telefonica ha chiarito al Manifesto cosa sta succedendo in questi giorni e quali saranno i passaggi successivi da qui all’apertura del dibattimento davanti alla Corte speciale istituita ad hoc dalla Corte suprema lo scorso mese di gennaio.

Secondo la versione online dell’Hindustan Times i funzionari della National Investigation Agency (Nia),in un rapporto inviato agli Interni indiani, avrebbero richiesto l’applicabilità del Sua Act 2002, che per casi di omicidio in mare prevede la pena di morte. L’India vuole giustiziare Latorre e Girone?

Il ministro degli Esteri Salman Khurshid e il portavoce degli Esteri di Delhi (in due conferenze stampa rispettivamente dalla Russia e da Nuova Delhi, ndr) hanno nuovamente confermato come la questione della pena di morte in questo caso non si ponga. Lo stesso ministro Khurshid lo scorso marzo, davanti al parlamento indiano e a me, quindi in via ufficiale anche allo Stato italiano, aveva chiarito che in India la pena di morte si applica esclusivamente nei casi «rari tra i più rari». Una condizione che non è concepibile per la vicenda Enrica Lexie.

Perché allora la Nia avanzerebbe questa richiesta?

Si tratta di un fatto procedurale da inserire all’interno dei vari stadi che, nel sistema legale indiano, portano all’apertura del processo. La Nia invia un rapporto al giudice con le proprie raccomandazioni circa l’entità dell’accusa. Tradizionalmente, mi ha spiegato il nostro pool legale indiano, queste raccomandazioni contengono richieste esagerate considerando la consuetudine della Corte a ridimensionare sempre i capi d’accusa. Ricevuto il rapporto, sta al giudice decidere se i capi d’accusa siano logici o meno; un verdetto emesso non prima della controbattuta della difesa, dove avremo la possibilità di demolire le tesi dell’accusa. Solo a quel punto il giudice determinerà i capi d’accusa e dichiarerà aperto il processo. Questo iter, secondo le previsioni dei nostri avvocati, dovrebbe concludersi entro il 15 dicembre.

Tanto rumore per nulla?

È il problema di affidarsi ciecamente a ricostruzioni approssimative e non ufficiali dei giornali indiani. In questo caso, addirittura, solo una testata – l’Hindustan Times – ha divulgato l’indiscrezione, senza che i capi d’accusa siano ancora stati definiti. E molti in Italia l’hanno ripreso con titoli altisonanti. Anche stavolta si è ripetuto lo scenario già visto prima della decisione da parte indiana di accordare l’interrogatorio in videochiamata per gli altri quattro marò. L’ipotesi era stata negata almeno tre o quattro volte dalla stampa indiana, ma alla fine l’interrogatorio si è svolto secondo una delle modalità che avevamo proposto a Delhi. Smentendo quanto i giornali in India avevano scritto fino a quel momento.

Si tratta quindi di una questione di inaffidabilità?

I nostri avvocati indiani ci hanno messo in guardia dal prendere per oro colato la stampa nazionale, in questo periodo preelettorale particolarmente nervosa.

Precauzione che vale anche per la stampa italiana?

Sì, in questo siamo simili.