La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene è un libro fortunato. Fortunato per il suo autore, fortunato anche per chi l’ha curato ed editato nel corso del suo secolo e più di vita. E vanno nominati: Piero Camporesi che, nel 1970 pubblicandolo nei Millenni dell’Einaudi, diede la scossa definitiva all’affermazione dell’opera nel canone letterario e Alberto Capatti che ne ha fatto, in trent’anni e passa, un vero e proprio «corpo a corpo» intellettuale, curandone più edizioni e una biografia di Artusi, unica e non romanzata come altre uscite a ridosso del bicentenario caduto nel terribile 2020: di Artusi e non dell’Artusi come si suole ed è entrato nel linguaggio comune definire così La Scienza. Eppure, il libro, alla sua uscita nel 1891, non era nato sotto una buona stella. Ma la perseveranza di Pellegrino Artusi nel perseguire i suoi obiettivi gli darà ragione.

Questa fu forse la prima ragione di un successo talmente desiderato da un allora settuagenario e agiatissimo borghese, romagnolo di nascita e di natali non propriamente abbienti, che dopo una fuga tragica e rocambolesca con la famiglia da Forlimpopoli, farà fortuna mercanteggiando nella Firenze di metà Ottocento. Peraltro una Firenze transitoriamente capitale d’Italia e aggregatrice di molti degli ingegni dell’epoca, ed in cui il futuro gastronomo, una volta messosi a riposo dagli affari, aveva coltivato velleità letterarie, licenziando a sue spese ben due libri di critica, tra cui una Vita del Foscolo prima di darsi dopo un decennio circa di silenzio «operoso» all’impresa, sempre condotta a proprie spese, che gli darà fama imperitura. E avrà il suo daffare a trasformare la sua cucina in «un teatro di sensazioni e sentimenti» e lì assistito dai fidi cuochi, la governante Marietta Sabatini e il servitore tuttofare Francesco Ruffilli, restava a provare e riprovare a dar forma alle ricette che riceveva quotidianamente e con cui avrebbe compilato il manuale pratico per famiglie più celebre d’Italia.

Quel provare e riprovare in un mondo ancora chiuso e appartato come era una volta la cucina, avulso dagli altri ambienti abitati, perlomeno questo negli appartamenti alto-borghesi o nelle magioni nobiliari e l’aver preso a prestito le parole di Alberto Capatti in cui quel posto della casa così intimo si definisce confidenzialmente teatro non può non far correre il pensiero a un altro luogo ancor più chiuso, che si vuole espunto dalla società, ma che qui a Volterra si è aperto all’esterno con un’esperienza artistica che fa scuola nel mondo e non solo del teatro. È il carcere che domina col suo Maschio la città e dove agisce, provando e riprovando – fino allo sfinimento per l’appunto – i suoi spettacoli pluripremiati, La compagnia della Fortezza di Armando Punzo e Cinzia De Felice. Questo spunto consente di restare ancora nella città di pietra e a rammentare uno dei suoi figli più illustri a cui il Premio è titolato. A Jarro che visse al tempo di Artusi. Quindi andando a quei lontani anni, Jarro, al secolo Giulio Piccini, nacque a Volterra nel 1849 e morì a Firenze il giorno di San Valentino del 1915. Dunque, quattro anni dopo lo scrittore romagnolo, e osservate frequentazioni e predilezioni i due senz’altro si conoscevano.

Non vi sono al momento riscontri documentali, né lettere, ma si possono aspettare sorprese dall’ imminente pubblicazione online delle duemila e più lettere depositate a Casa Artusi. Sebbene a comparare le due biografie personaggi più diversi, restando solo alla passione più comune, cioè la cucina, non potevano essere. Forse i tratti del «bon vivant» potevano accomunarli, ma anche qui le differenze «a pelle» sembrano enormi. Insomma ciò che riuscì a Jarro non riuscì ad Artusi. Al di là del successo che arrise a quest’ultimo mentre al primo non restano che poche battute in storie letterarie minori, confinato in un semioblio che non dovrebbe appartenergli per come fu dannunzianamente un acrobata della parola, un inesausto esploratore di generi letterari (alcuni suoi romanzi furono anticipazioni del noir e del giallo), per l’attività giornalistica (con le prime inchieste di sapore verista condotte in una Firenze marginale cupa e sotterranea) e la critica teatrale.

Nondimeno divenne proverbiale la verve umoristica e anedottica che trasferì nei suoi almanacchi gastronomici pubblicati nell’ultimo spicchio di vita. L’estrosità di Jarro capace di stare a tavola tutto il giorno strideva con lo «stomaco debole» di Pellegrino e se il primo annotava i suoi pensieri di notte, il suo più anziano concittadino preferiva vergare le ricette di giorno, dedicando la sera alle amate letture dei classici, spesso letti, quando la vista gli si era indebolita, dalla Marietta. Di certo tutti e due, nei rispettivi campi, più aperto e dissipante quello di Jarro, più centrato quello di Artusi, furono degli anticipatori, degli intellettuali che seppero spostare in avanti, ad un progresso sociale e tecnologico di cui intravidero molto poco, la loro capacità di sperimentare l’inedito e il nuovo.
Tuttavia, se la produzione di Jarro si è persa per le impervie vie del ’900, La Scienza di Artusi ha superato il suo autore, ritagliandosi una fama che, oggi nel XXI secolo, travalicando la sua stessa natura di ricettario, si è conquistata aprendosi alla lettura non più specialistica, ma pluridisciplinare che pienamente appartiene alla nostra contemporaneità.