In principio era «Polverigi», appuntamento fondamentale che dagli anni 80 ci fece conoscere artisti sconosciuti da noi (molti americani, Alain Platel, William Kentridge che i grandi festival ignoravano del tutto), inventando ed elaborando nel frattempo anche un modo di lavorare e conoscersi che ogni anno radunava una bella folla estiva nella località sulle colline di Ancona. Quello spirito persiste, quel festival si è trasformato in Inteatro, manifestazione più robusta che si divide tra la stessa Polverigi e il centro del capoluogo. Ma soprattutto a dirigerla è ancora Velia Papa, che ne fu fondatrice assieme a Roberto Cimetta, e oggi ha la responsabilità dell’intero Marche Teatro, istituzione regionale che ha incorporato tutte le strutture e le attività di spettacolo del territorio, coordinando sforzi e evitando sprechi.
In due intense settimane si sono succeduti spettacoli e personalità diversissime: teatro, danza, musica, performance hanno ottenuto grande successo di pubblico, e posto elementi di riflessione anche allo spettatore più attento.

La rete di relazioni che Velia Papa ha allacciato negli anni funziona egregiamente, e fa ancora di Inteatro un luogo di «scoperta» di realtà sempre interessanti, e qualche volta incredibili. Non sono certo sconosciuti anche da noi i berlinesi Rimini Protokoll, che negli anni hanno portato il pubblico italiano dentro i loro mondi tanto artificiali quanto eloquenti: come quel gigantesco plastico di trenini elettrici di montagna, per narrarci cime e cadute della confederazione svizzera (uno dei fondatori del gruppo ha quell’origine). Oppure il viaggio nella evoluta legislazione familiare tedesca raccontata dalla ragazzina dell’estremo oriente adottata a suo tempo dalla famiglia sassone.

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Hanno sempre teorizzato che gli interpreti dei loro spettacoli postdrammatici non sono attori quanto piuttosto «esperti» di argomenti e situazioni. Questa volta, nel soggiorno di una famiglia di Ancona ogni giorno diversa,una quindicina di spettatori seduti attorno al tavolo sono essi stessi gli esperti: devono rispondere a domande e compiere gesti attorno a un tema per nulla irrilevante, nonostante l’ambiente domestico e giocoso in cui si svolge: Europa a domicilio.

C’è un master del gioco (italiano, accuratamente istruito dagli inventori del progetto) che con una serie di dispositivi, per lui e per i giocatori, di ultima generazione come di modernariato, coordina la sequenza delle domande, assegna punteggi, scopre le lacune geografiche annidate nei ricordi di scuola, svela il retrogusto amaro di risposte con cui i giocatori svelano convinzioni, disponibilità, pregiudizi e anche qualche tabù, fatalmente asserragliati dentro i nostri comportamenti quotidiani.

Europa, come ognuno sa ormai, tra le decisioni spesso «marziane» di Bruxelles e lo shock dell’avvenuta Brexit, vuol dire molte cose: solidarietà, democrazia, ma anche muri che tornano ad elevarsi, nuovi percorsi capitalistici mascherati da «uguaglianza di trattamento» per i bilanci e per il frutto del lavoro. Il tono leggero e partecipe non serve a mascherare i pericoli che dietro tanti comportamenti si annidano, ma aiuta, sorridendo in quella complicità da salotto, a prenderne coscienza. Chi «vince» come punteggio, gestisce la torta di frutta che nel frattempo è lievitata nel forno. L’amarezza ognuno se la può gustare dopo la fine del gioco/spettacolo, magari riflettendo su qualcosa che non avrebbe mai pensato di covare in seno…

Ancor più legato all’attualità planetaria, Tijuana, la democrazia in Messico. Il regista di una compagnia messicana ((la Lagartijas tiradas al sol), ha deciso qualche tempo fa di indagare quali sono i reali rapporti di forza nella repubblica messicana, e quindi spacciarsi per sei mesi per un lavoratore di infimo livello nella californiana città di Tijuana: il racconto di quella esperienza, vera discesa all’inferno tra povertà e sfruttamento, è il percorso dello spettacolo che egli da solo conduce, con precisione e dettagli matematici, con l’aiuto di grandi disegni, e bellissime immagini proiettate su una lavagna luminosa. Senza retorica né piagnistei, consapevole che alla fine dei sei mesi l’esperienza per lui si chiuderà, l’artista ci scopre un mondo che possiamo da sempre aver immaginato, ma nessuno vorrebbe vedere mai. Un pellegrinaggio laico, la sgradevolezza della verità, la crudeltà di un sistema di vita, narrati attraverso materiali semplici e colorati, come è la vita di tutti i giorni. Che spesso servono a mascherare l’orrore.

A tarda sera, si riacquista a fatica la felicità del corpo, risalendo attraverso le «radici» di una compagnia francese di danza, tra acrobatica e hip hop, The roots degli Accrorap. Kader Attou e un coreografo geniale di origini algerine, che da quella sua compagnia hip hop è diventato direttore del Centro coreografico della Rochelle. Ha cominciato con la breakdance, ma poi ha dato senso alla danza preparando i suoi spettacoli in Bosnia e in oriente; ora fruga nelle radici della «normalità»,coordinando le acrobazie mirabolanti di un ensemble di 11 danzatori.

L’armonia e la padronanza, l’abilità e il controllo dei nervi, seppure in giacca e camicia, descrivono nello spazio linee inusuali, in una scenografia di mobili sghembi e di effetti ottici. Anche dentro la «normalità» più grigia, la vitalità può prendersi la rivincita. Sognando i miti Bausch, ma in assoluta autonomia, il movimento sconfigge ordine e banalità, disegnando linee di vite prossime migliori.