Il capo della polizia israeliana Kobi Shabtai era già atterrato ad Abu Dhabi quando un nuovo articolo sul sito Calcalist gettava l’ennesima ombra sull’uso nebuloso dello spyware Pegasus da parte del corpo che dirige. Negli Emirati per puntellare l’Accordo di Abramo con la cooperazione alla sicurezza, Shabtai avrà sicuramente avuto il tempo di leggere l’ultima rivelazione, dal titolo lapalissiano: «Nessuno è immune».

Segue la lista di personalità che la polizia israeliana in questi anni avrebbe spiato (senza via libera della magistratura e nell’assenza di inchieste in corso), infiltrando nei loro cellulari il famigerato spyware della compagnia israeliana Pegasus.

C’è di tutto. Gli allora direttori generali dei ministeri dei trasporti, delle finanze e della giustizia, leader dei movimenti di protesta degli ebrei etiopi e dei disabili, i sindaci di Netanya, Mevaseret Zion, Kiryat Ata e Holon. E poi una serie di personaggi coinvolti nel caso 4000, una delle inchieste per corruzione contro l’ex primo ministro Netanyahu. Tra loro l’amministratore delegato e il direttore del noto portale Walla, destinatario di un giro di affari da mezzo miliardo di euro in cambio di una copertura favorevole del premier. E, infine, c’è uno dei figli di Netanyahu, Avner, e i suoi bracci destri, Topaz Luk e Yonatan Urich.

Il quadro che emerge è quello di una copertura a tappeto, un uso di Pegasus al di fuori della legge, per niente timido. «È diventato uno dei principali strumenti della polizia per raccogliere intelligence», scrive Calcalist. Smontando così le barricate della stessa Nso che aveva giurato che in nessun telefono israeliano era stato installato Pegasus a insaputa dello spiato. A gestire lo spionaggio un’unità speciale della polizia, Sigint.

Calcalist prosegue ricordando che, tra gli hackerati, ci sono anche i leader delle proteste anti-Netanyahu dell’anno scorso. Si indigna: che democrazia è quella che mette una cimice nella libertà di espressione? Ma è per questo che Pegasus ha avuto tanta fortuna, acquistato da governi democratici e regimi autocratici in tutto il mondo, come strumento di controllo sociale e repressione.

Israele – il cui governo approva la vendita di Pegasus all’estero, al pari degli equipaggiamenti militari – ne ha beneficiato non solo economicamente ma politicamente: lo spyware (e la cosiddetta cyber diplomacy) è stato uno degli strumenti sia di definizione dell’attuale rete di alleanze trasversali sia di esportazione del modello securitario israeliano.

Ora tocca i nervi scoperti dello Stato. La polizia deve renderne conto, insieme all’allora capo Roni Alsheikh, non a caso ex vice capo dei servizi segreti interni, lo Shin Bet. Sotto di lui Pegasus (acquistato nel 2013 per 2,7 milioni di shekel, 760mila euro), fa il salto di qualità. La scorsa settimana la polizia israeliana ha ammesso «anomalie» nell’uso dello spyware, «azioni che oltrepassano i suoi poteri», e ha girato le prove alla Procura generale. E ieri da Abu Dhabi ha parlato Shabtai: chiede al ministero della Sicurezza pubblica «una commissione d’inchiesta indipendente».